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La cultura dell’immediatezza e della velocità non aiutano

Controsenso: usi e abusi delle parole quotidiane

Quante volte ci si lascia inseguire dal tempo. Quante volte si permette ad esso di dettare il modo di relazionarsi con gli altri e con le cose e, soprattutto, di essere. La felicità pare fatta di attimi che fuggono via veloci, lasciando nel cuore profonda nostalgia; i momenti dolorosi, invece, sembrano non passare mai e quel medesimo cuore si consuma nell’attesa, speranzosa o rassegnata, che tutto passi presto!

Fugit irreparabile tempus: il tempo trascina, insegue, incalza, soprattutto sfugge: “non ho tempo” è una delle frasi più usate nelle conversazioni e nei monologhi di ogni giorno, perché il tempo è trattato come un bene di consumo da possedere e gestire alla perfezione, pena la pericolosa battuta di arresto nella maratona quotidiana del fare. Si hanno e si vogliono avere mille impegni; si incolpa la vita diventata complessa, e per certi versi è vero.

La cultura dell’immediatezza e della velocità non aiutano: siamo ancora alla metà di novembre e i negozi sono già pieni di alberi e decorazioni di Natale. Perché? Per la stessa ragione per cui a settembre pianifichiamo nel dettaglio i mesi fino a luglio: desideriamo essere oberati di impegni e collezionare infinite esperienze, soprattutto se si tratta dei bambini…per amore della formazione, diciamo. Ma la verità è un’altra: non vogliamo tempi morti, tempi di noia e di non produzione, poiché restare fermi e in silenzio, a respirare il tempo che passa, fa paura. E così la paura del tempo ci rende incapaci di vivere adeguatamente i tempi di ogni giorno, di ogni mese, di ogni stagione della terra e dell’esistenza.

«L’essere umano compreso nella sua estrema possibilità d’essere, è il tempo stesso, e non è nel tempo»: è la grande intuizione di Martin Heidegger nella sua opera “Essere e tempo”. Una delle più urgenti vocazioni da assolvere oggi sembrerebbe quella di essere il proprio tempo. L’uomo, in altre parole, ha il dovere di recuperare la dimensione ontologica del tempo, affinché sia egli stesso a decidere di esso e non il contrario e possa, di conseguenza, sentirsi liberato dalle proprie scelte.

Gli antichi Greci indicavano il tempo con due termini: κρόνος, ossia il tempo cronologico in senso stretto, come normale successione di eventi, e καιρός, parola indicante il momento opportuno, un tempo non pienamente misurabile se non nell’uomo e attraverso l’uomo. Il tempo, insomma, è questione di quantità e qualità insieme, due dimensioni imprescindibili e intimamente connesse.

In effetti non si tratta di puntare utopisticamente ad una semplificazione della vita e ad una riduzione magica di impegni e scadenze; la realtà con la quale ogni persona interagisce ogni singolo giorno è di per sé complessa, così come complesso è l’essere umano stesso! Non si può filtrare il quotidiano per semplificarlo, anche perché i filtri sono fatti per trattenere gli scarti. L’atteggiamento di fronte al tempo dev’essere quello del cercatore d’oro, il quale con pazienza setaccia il terreno per trattenere le pepite nel suo setaccio. Egli rende quel tempo di duro lavoro un “tempo opportuno”, un istante irripetibile di arricchimento, nel quale conta solo quella pepita in quel fango in quell’ora, non quelle precedenti né quelle seguenti, non quello che avrebbe potuto fare prima o quello cui sarà sottoposto dopo.

C’è bisogno di reimparare la sapienza dei tempi, assaporarli fino in fondo, rispettarne i confini. Occorre che a novembre si guardino le foglie cadere, senza pensare alle luci natalizie, e che le vacanze scorrano lente e oziose, perché «c’è un tempo perfetto per fare silenzio, guardare il passaggio del sole d’estate e saper raccontare ai nostri bambini quando è l’ora muta delle fate», canta Fossati. E a proposito di bambini urge che vivano e siano trattati da bambini, tappa dopo tappa, e che gli adulti si fermino a ricercare il valore reale dei loro mille affari, con il setaccio dell’intelligenza sapiente di chi sa che il proprio stile di vita è frutto di scelte precise, non il prodotto di un determinismo culturale e sociale di cui si è vittime.

Vale la pena meditare un bel passo del libro del Qoèlet:

 

«Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo.

C’è un tempo per nascere e un tempo per morire,

un tempo per piantare e un tempo per sradicare quel che si è piantato.

Un tempo per uccidere e un tempo per curare,

un tempo per demolire e un tempo per costruire.

Un tempo per piangere e un tempo per ridere,

un tempo per fare lutto e un tempo per danzare.

Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,

un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.

Un tempo per cercare e un tempo per perdere,

un tempo per conservare e un tempo per buttar via.

Un tempo per strappare e un tempo per cucire,

un tempo per tacere e un tempo per parlare.

Un tempo per amare e un tempo per odiare,

un tempo per la guerra e un tempo per la pace.

Che guadagno ha chi si dà da fare con fatica?

Ho considerato l’occupazione che Dio ha dato agli uomini perché vi si affatichino. Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo; inoltre ha posto nel loro cuore la durata dei tempi» (cf Qo 3,1-11).

 

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