Ormai si può considerare una maschera della commedia dell’arte – anch’essa prettamente italiana – al pari di Alrlecchino, Pulcinella, Pantalone: lo studente fuorisede.

Lo studente fuorisede è giovane, viene da paesini del Sud, vive in grandi città del Nord, condivide la casa con suoi simili, in condizioni igieniche precarie, di tanto in tanto ospita i parenti che vanno a vedere le partite di serie A negli stadi che contano. Si abitua a vivere da solo, fa orari sballati, scende per le feste, dopo qualche giorno coi suoi sclera, riparte con la valigia piena di provviste alimentari, a un certo punto gli manca il mare, gli manca la madre.

Piano piano inizia a sentirsi migliore dei suoi amici rimasti al paese, se non sta attento gli cambia l’accento, promette a sé stesso che gli non succederà mai di passare un singolo giorno d’agosto a Milano, Roma o Bologna. Appena trova lavoro non mantiene la promessa. L’esistenza dello studente fuorisede nella società italiana di questi anni è ormai accettata come un fatto naturale, la sua figura radicata nell’immaginario comune, raccontata e stilizzata da film, libri e pagine Facebook.

E qual è il problema? Il problema è nel “fuori”, e anche nella “sede”. A dispetto del loro significante generico, infatti, queste due parole sono venute assumendo via via un significato ben preciso: vogliono dire fuori dal Mezzogiorno d’Italia e fuori dalla sede in cui si è nati e cresciuti fino al conseguimento della maturità. I numeri parlano chiaro: su una popolazione di un milione e mezzo di studenti, 1 su 4 va via dalla propria regione per studiare.

E se le Regioni del Centro-Nord riescono a trattenere i propri ragazzi, dalle Regioni del Sud lo sversamento è continuo. Dalla Basilicata vanno via il 75% di studenti, dal Molise il 65%, dalla Puglia il 39%. Di contro dal Lazio si sposta solo il 10% di universitari, dalla Lombardia il 13% (per andare comunque in Veneto, Piemonte o Emilia-Romagna), dalla Toscana il 14%. La difficoltà allora sta nel fatto che quello dei fuorisede è tutt’altro che un circolo virtuoso per cui le università si scambiano studenti in un gioco a somma zero. È invece un circolo vizioso che segue una direzione costante – quella da Sud verso Nord – prodotto di uno squilibrio ben preciso del sistema universitario italiano.

In un recente rapporto dell’IRPES (Istituto Pugliese di Ricerche Economiche e Sociali) si legge come la Germania preveda per la spesa universitaria 332 euro a persona, 305 la Francia, 157 la Spagna, 117 euro il Centro-Nord Italia e soli 99 euro il Mezzogiorno. Il perché di questo divario si spiega tenendo conto del fatto che il modello di finanziamento nel nostro paese prevede a una “quota base” e una “quota premiale”. Se la prima allora è una quota omogenea che lo Stato stanzia su tutto il territorio nazionale, la seconda varia a seconda del livello qualitativo dell’ateneo ma, attenzione, non nel senso che si assegnano più fondi alle università più meritevoli, bensì se ne sottraggono a quelle deficitarie. È chiaro allora che gli atenei minori non hanno speranze di colmare il gap.

Ecco che l’Italia finisce per avere università di serie A – tutte concentrate in un triangolo di 200 km di lato, con vertici Milano, Bologna e Venezia – e università di serie B, per lo più al Sud (la migliore del meridione è quella di Salerno, al sedicesimo posto). Così chi può permetterselo se ne va a studiare al Nord, nelle università migliori, inserite in un contesto socio-economico più prospero: ecco perché si diventa fuorisede.

E non è questione di lana caprina. In molti casi uscendo da un’università ritenuta fra le migliori, si hanno più chances di trovare lavoro. Un rapporto di Alma Laurea spiega come prendendo a campione un gruppetto di università del Sud quali l’Orientale di Napoli, Palermo, Foggia o Messina, si ha che dopo 3 anni dalla laurea i ragazzi che lavorano sono il 70% del totale, guadagnando fra i 1000 e 1200 euro la mese. Guardando al Politecnico di Torino, invece, a lavorare a 3 anni dalla laurea è il 96% di giovani, guadagnando 1600 euro al mese in media. Certo non tutte le facoltà hanno la stessa sorte, ma il macro-dato rimane quello ed è poco controvertibile.

Tutto considerato allora si diventa fuorisede, oltre che per un’innata apertura verso il mondo di alcuni, soprattutto perché conviene. È un investimento su sé stessi, è ricerca di maggiori opportunità, e più che il termine “fuorisede”, troppo neutro, forse si dovrebbe parlare di “migranti per motivi di studio”. Si dovrebbe iniziare a calcolare i costi di questo continuo travaso e capire che uno studente fuorisede, diventa poi con ogni probabilità un lavoratore fuorisede e finisce per condurre una vita fuorisede. Al Sud non torna più.

Si dovrebbe tentare di andare oltre la percezione macchiettistica di questa maschera e provare a raccontarne anche la malinconia. Lo studente fuorisede è quello che a lungo andare torna nel paese dove è cresciuto e si accorge di non avere più amici, di provare noia e disagio a stare lì. Alle volte gli passa per la mente di cercare lavoro al Sud ma non sa da dove iniziare. Così rimane dov’è. A trent’anni è costretto a condividere casa con qualche matricola, come a venti.

Poi mette su famiglia e prende casa nell’hinterland. Suo figlio, nonostante i suoi sforzi, cresce capendo ma non parlando il suo dialetto. Le vacanze le passa a quello che ormai è il paese dei suoi, non più il suo, perché i nonni si godano il nipotino. Osserva che in quel posto, da quando se n’è andato, non è cambiato niente, solo i suoi li ritrova di anno in anno inesorabilmente più vecchi. Così gli viene il sospetto che si diventa studenti fuorisede perché la questione meridionale, evidentemente, è viva e vegeta e lotta contro di lui.


2 COMMENTI

  1. Da studenti fuori sede a vita fuori sede.
    Tante volte ho sperato e ancora spero a 38 anni, sposato da 10, di potermi trasferire al nord, perche sono convinto che nonostante la crisi, ci siano ancora delle opportunita li.

  2. L’idea iniziale degli studenti fuorisede è sempre quella di ritornare nella loro terra di origine a mettere in pratica quello che si è imparato fuori, ma questo solo raramente succede. Lo Stato dovrebbe fare quancosa per fermare questo trend. Un articolo sul fenomeno era sul sole24ore di oggi.
    “La fuga di 200mila laureati al Nord, così il Sud ha perso 30 miliardi”
    http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2018-02-21/la-fuga-200mila-laureati-nord-cosi-sud-ha-perso-30-miliardi-094731.shtml?uuid=AEsJqk3D

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