
Del referendum e dintorni. La verità dei numeri
L’etimologia della parola democrazia deriva da dèmos = popolo e cràtos = governo, quindi “governo del popolo”. La legge costituzionale 1/1997 indica che il referendum viene indetto se entro tre mesi dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, ne facciano richiesta 1/5 dei membri di una Camera o cinque consigli regionali o 500.000 elettori.
Il referendum è uno strumento che un popolo coeso e di coscienza può usare per esercitare la proprio sovranità. Non è una questione di belle parole, ma di numeri. E i numeri dimostrano che gli italiani non lo sanno.
Per una popolazione di quasi 60 milioni di abitanti significa che basta meno dell’1% degli elettori per richiedere un decreto abrogativo. Affinché il referendum abbia effetto, però, bisogna raggiungere il quorum, ossia il 50%+1 degli aventi diritto (circa 26 milioni di persone) deve aver espresso il proprio voto. Se vince l’astensionismo, ossia i cittadini non si recano alle urne, allora il referendum decade e il popolo non avrà esercitato il proprio potere di governo.
Razionalmente parlando, l’approccio della legge non è da condannare. Ha senso che una minoranza, l’1% in questo caso, sollevi con una petizione e richieda al popolo tutto e alla politica di riflettere sulla abrogazione di una legge. Sarebbe anche corretto che poi la decisione finale fosse condivisa dalla maggioranza del popolo, come un sistema democratico richiede. Ma vi sono alcuni dati che vanno contestualizzati ed analizzati.
In 20 anni, comprendendo anche il più recente referendum sulle trivelle, 7 referendum su 8 sono falliti. L’outsider è stato il referendum del 2011 sulle centrali nucleari, dove il disastro di Fukushima, le tempistiche e l’informazione hanno sensibilizzato non poco gli elettori, portandoli a votare. Tralasciando le demagogie, è chiaro che con una percentuale di fallimento così elevata (stiamo parlando dell’87.5%), il referendum manifesta la sua inefficacia. C’è da chiedersi se qualcosa non sia da rivedere nei termini di attuazione.
Analizzando il problema in maniera razionale e non politica, quello che rende inefficace lo strumento è il raggiungimento del quorum, ossia l’astensionismo. Trattandosi di decreto abrogativo, se non si raggiunge il quorum, l’effetto è quello del NO, ma il messaggio del popolo è: fate come volete!
Per il prossimo referendum le regole del gioco sono diverso essendo un referendum su materia costituzionale il che prevende un referendum confermativo: cioè, si vota per confermare e non abrogare, ma in questo caso il raggiungimento del quorum non è necessario. Quindi adesso vincerà chi avrà fatto miglior propaganda.
Sarà lecito chiedersi, senza entrare nel merito delle tematiche, il perché di questa disparità? Ovvio che l’assenza del quorum rende un referendum più efficace. Ma perché non utilizzare sempre le stesse modalità? Sarà forse perché è l’Europa a chiederci questa riforma? E allora sono più importanti le voci esterne al nostro Paese piuttosto che le tematiche sollevate dai cittadini stessi del Paese?
Lasciamo perdere le demagogie, lo sappiamo tutti che ci sono e ci saranno sempre. Anche la retorica sul perché esista il quorum, se è uno strumento o meno per spostare l’ago della bilancia. Sì, perché se ognuno facesse il proprio dovere, il quorum non sarebbe un ostacolo alla nostra espressione di governo, ma un valore aggiunto. Invece siamo noi stessi ad annullarci con questa tendenza dell’astensionismo. Ma spiegatemi il perché. Sono giovane e ingenuo e non so come va il mondo.
È forse un modo innovativo per andare controcorrente? Dire NO non è abbastanza chiaro come messaggio eversivo? Non ci si informa abbastanza e i giornali non ne parlano? Sono d’accordo con chi sostiene che lo Stato, pur avendo a disposizione un servizio di informazione televisivo che grava sui nostri portafogli, non ne faccia buon uso. È altresì vero che, oggi come oggi, con internet, smartphone e simili, le informazioni si trovano comunque, fin troppe forse.
Quindi permettetemi di esprimere un personalissimo parere non contro la politica o il sistema questa volta, ma contro noi stessi. Sì, perché i politici fanno i loro giochetti e lo sappiamo tutti, e siamo anche abbastanza bravi a colpevolizzarli per tutto ciò che in Italia non funziona.
Ma se il singolo cittadino non si reca alle urne per un referendum, allora si faccia un mea culpa. Perché è troppo facile far decidere agli altri e poi criticare le scelte, quando si ha la possibilità di scegliere! Pensare che questo privilegio ce lo invidiano altre nazioni, parlo dell’Inghilterra e non della Romania.
I giovani si interessano poco, si dice. La nuova generazione, quella che viene definita come gioventù bruciata e viziata, è chiamata a scendere in campo per risollevare il proprio futuro, si aggiunge. Ma è giunto il tempo di scardinare quest’altro alibi, ancora una volta, numeri alla mano.
Vi è un dato demografico rilevante da considerare. I dati Istat del 2015 ci dicono che il popolo italiano è costituito da circa 8 milioni di giovani (0-14 anni), quindi non votanti, 39 milioni di adulti e 13 milioni di anziani (+65 anni). Nella fascia degli adulti rientrano anche circa 5 milioni di stranieri residenti (forse meno interessati alla politica?).
Si capisce bene che per raggiungere i 26 milioni del quorum, serve che buoni 2/3 degli adulti vadano a votare, in piena coscienza.
Ma i dati ISTAT parlano chiaro. La gioventù bruciata in Italia (fascia di età tra 18-34 anni) consta di solo 6 milioni circa di giovani, ahimè solo il 23% di quei 26 milioni che servono a raggiungere il quorum. Se tutti i giovani andassero a votare, non raggiungerebbero comunque il quorum. Se tutti gli adulti e anziani andassero a votare il quorum si raggiungerebbe sempre. Chi non sta facendo i compiti a casa? Chi ha perso fiducia in un sistema che ha creato e che non riesce a rimettere in ordine?
Questo articolo, più che dare risposte, pone tante domande. Lo sfogo di un giornalista alle prime armi, giovane, che torna dall’estero e trova tanta indifferenza. Perché i giovani devono prendere in mano le redini, gli tocca e ne sono consapevoli. Ma gli adulti non possono passare il testimone così facilmente, perché non ne siamo ancora capaci noi, non abbiamo i numeri per farlo e perché per gli adulti non è ancora tempo di andare in pensione.
Certo è che se gli italiani fossero popolo coeso e cosciente, qualsiasi regola ad personam o cavillo legislativo non funzionerebbero.
L’Italia s’è fatta, ma il popolo italiano ancora tarda a nascere. Lo diceva D’Azeglio quasi 150 anni fa. Allora c’erano tante differenze, ma la società si è evoluta. Andate all’estero per vedere come l’identità nazionale faccia chioccia contro qualsiasi differenza sociale, e l’invito è rivolto agli adulti, perché i giovani, per volere e per necessità, un giro in Europa se lo fanno.
Per essere coesi bisogna unirsi non tra nord e sud, ma tra giovani e adulti, tra padri e figli (e nipoti). E leggendola in questa ottica, forse, tutte le diversità possono essere superate.
Nei prossimi Mondiali di calcio saremo tutti italiani, come Mameli ci dipingeva, coesi e concordi nell’urlare, unanimi, un “s^”, come in tutte le manifestazioni sportive.
Io, nel calcio come nella vita, in quorum mio, ci credo.