Dalle piaghe d’Egitto, in poi…

Si soffre la piaga del Covid19 scorrendo e noverando il passato coi tanti flagelli presentatesi e che han messo l’uomo in gravi difficoltà. Molte sono state le avversità, già dal II sec. a.C.

Poi, dalle dieci piaghe d’Egitto, secondo la Bibbia, fino ad annoverare le pandemie: Tifo, Colera, Peste, Vaiolo, Ebola, AIDS, Peste suina e bubbonica e le varie, quelle comunemente chiamate, “Influenze stagionali”. Ora siamo a combattere, il Covid19, con le sue varianti. Lo stiamo facendo alla maniera di Don Chisciotte della Mancha, solo che in questo caso sono altre pale, a girare…

I morti si sono contati in modo superficiale ma sono tanti. Non serve, poi, un contatore o una “Tabella Pivot” per accreditarne la quantità, il sesso e l’ubicazione: parrebbe un modo funesto di sadismo, contare le vittime e ignorarne le cause. È pur vero che siamo stati colti di sorpresa e non eravamo preparati. Ma è altrettanto vero che, al replicarsi di tali situazioni restiamo allibiti e impreparati come fosse la prima volta…

Che chi dovrà dirigere un’orchestra si debba munire di uno spartito è cosa assodata. Pure gli orchestrali, ognuno col proprio strumento al quale è stato abilitato. Nessuno può presentarsi al concerto dicendo di aversi dimenticato lo strumento e magari farsene prestare uno da un collega e suonare al posto suo.

Una volta chiarita la situazione, tutti, dico tutti, seguiranno a bacchetta il direttore e non certo come nell’armata Brancaleone, ognuno per sé. Senza il rispetto delle regole non c’è musica: si va nel pallone; si va solo a sbattere. È inutile quanto dannoso montare una liceità quando l’illegittimo fa capolino come un campo di grano in aprile.

Questi tragici momenti, ripresi da eccellenti scrittori, diventeranno veri capolavori di letteratura.

Albert Camus, nel suo libro “La Peste”, mette in prima fila Monsieur Bernard Rieux, medico condotto di Orano, (cittadina algerina) per dare l’incipit al suo libro. Egli descrive l’affacciarsi, sulle rive del Mediterraneo, della pandemia. La storia ha inizio da un inciampo su un topo morto che innesta una tragedia di dimensioni colossali, coinvolgendo il popolo algerino in una tragedia allucinante.

La peste si era propagata vistosamente, tanto da coinvolgere, in periodi differenti, il mondo intero.

Si racconta che a Genova arrivò portata da marinai provenienti dalla Crimea, assediata dai tartari già infettati. Questi, per espugnare Caffa, (oggi Feodosiia) catapultarono, oltre le fortificate mura, cadaveri appestati, di loro soldati.

La peste è causata dal batterio Yersinia pestis, che normalmente ha come ospite le pulci parassite dei roditori: ratti, alcune specie di scoiattoli, cani della prateria e, in alcuni casi, animali domestici come i gatti. L’origine della peste è molto antica, e per la sua forza distruttrice, è diventata nell’immaginario collettivo la ‘morte nera’. Fu chiaro da subito che i portatori della malattia erano i ratti, visto che l’epidemia umana solitamente scoppiava in seguito a una grande moria di roditori. L’osservazione che non fosse necessario il contatto umano per diffondere la malattia, portò alla comprensione del ruolo delle pulci nella sua trasmissione. Forte ne esce lo scritto di Camus, (Premio Nobel per la letteratura 1957), nel libro” La peste”. Libro che coinvolge emotivamente il lettore con la destrezza e la linearità adoprata dall’A. Così a partire dall’anno 1347 il contagio a intervalli di pochi anni comparve in diverse parti d’Italia. Nelle città del Nord Italia intorno al 1500, riproponendosi ogni due anni fino alla grande epidemia del 1528, poi mediamente ogni quattro fino al 1550. Con la discesa dei lanzichenecchi a Milano arrivò anche la peste. 1630-31.

Alessandro Manzoni, nel suo romanzo “I promessi sposi” ne descrive passi memorabili, con Renzo Tramaglino che entra furtivamente a Milano da Porta Nuova, eludendo la sorveglianza. Lo fa per ricongiungersi con la sua amata Lucia Mondella. A un certo punto egli nota due pani lasciati ai piedi di una colonna e, meravigliato per quel benessere, li raccoglie per sé. Succede che poi ne debba far misericordia ad una donna con in braccio un figlio contagiato mentre lo adagia amorevolmente sul carro dei monatti. Poi la madre di Cecilia, mentre scende le scale per consegnare anche lei la figlia morta ai serventi pubblici, addetti al triste compito.

Il Manzoni riesce a descrivere la tragedia e a creare un alone di vera poesia, dove il “verso” descrittivo, si fonde con lo spirito, quasi mortificato del lettore. Il testo eleva a più alti valori: più alti e sublimi di quelli della tragedia narrata. Lo fa con (Addio monti…); con (Non tirava un alito di vento…) la descrizione della barca che si muove sul lago e i tonfi dei remi nell’acqua che paiono ritmi ansanti di un cuore ferito, quello di chi lascia il paese natio; quando descrive la madre con la figlia Cecilia, morta (Scendeva dalla soglia di uno di quegli usci…) mentre scende le scale fino a che la depone ella stessa sul carro dei monatti, “promettendole” di raggiungerla subito per rimanerle accanto. Se non è poesia questa, io credo che nemmeno il Parnaso abbia diritto di esser citato.

Sono proprio le conseguenze delle guerre a generare queste forme di epidemie, di tristezze, con le carestia e i disagi che ne derivano: fame, sporcizia, mancanza di medicinali e così dicendo…

Col Covid19 è successo che non si è potuto dare l’ultimo saluto al proprio caro perché deceduto in ospedale o in un ricovero per anziani. È stata questa una vera, gran tragedia, difficilmente da dimenticare.

L’uomo, non essendo immune dalla morte, deve mettere in conto queste forme virali alla base della sua esistenza. Dovrà farlo con oculatezza ed esprimendosi nel modo più civile possibile, per contrastarne le complicazioni.

L’adattamento a fatti naturali, come le calamità che il cielo ci manda, è insito biologicamente in un essere vivente, ma senza pretesa alcuna: senza provocarne elementi aggiuntivi a quelli che la natura ci manda.

Il Mondo non è altro che un immenso “Condominio” con una finestra circolare, sempre spalancata sull’orizzonte, che non va offuscato.

Nel 2007 mi trovavo in Messico, nello Stato del Quintana Ro, a Chetumal. Dovendo recarmi, con un amico italiano e un ingegnere botanico del posto, a Mérida, (nello Yucatan) presso l’Università botanica, appunto, quattrocento chilometri circa di distanza da Chetumal, mi capitava assistere ad uno di questi “fenomeni-piaga. Una volta arrivati a Mérida, il cielo di mezzogiorno si oscurava tanto che si faceva fatica a vedere oltre i cinquanta metri. Una nuvola consistente di gigantesche cavallette condizionava la luce solare a non penetrarla. La massa dello sciame in volo era talmente consistente che sembrava trovarsi nella Milano degli anni ‘30. L’invasione durò quattro ore circa. Notai una scarsa attenzione, al fenomeno, da parte della gente del posto. Il mio amico mi disse che, in seguito, mi avrebbe portato in un noto ristorante del posto a gustarne le rinomate ricette a base di commestibili ortotteri. Mai andato ma, in compenso, gli promisi di fargli del pane che tanto desiderava mangiare. Non avessi mai incominciato a farlo. Ci fu il rischio di annullare, a livello Nazionale, le locali tortillas… ma questa è un’altra storia.


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Salvatore Memeo è nato a San Ferdinando di Puglia nel 1938. Si è diplomato in ragioneria, ma non ha mai praticato la professione. Ha scritto articoli di attualità su diversi giornali, sia in Italia che in Germania. Come poeta ha scritto e pubblicato tre libri con Levante Editori: La Bolgia, Il vento e la spiga, L’epilogo. A due mani, con un sacerdote di Bisceglie, don Francesco Dell’Orco, ha scritto due volumi: 366 Giorni con il Venerabile don Pasquale Uva (ed. Rotas) e Per conoscere Gesù e crescere nel discepolato (ed. La Nuova Mezzina). Su questi due ultimi libri ha curato solo la parte della poesia. Come scrittore ha pronto per la stampa diversi scritti tra i quali, due libri di novelle: Con gli occhi del senno e Non sperando il meglio… È stato Chef e Ristoratore in diversi Stati europei. Attualmente è in pensione e vive a San Ferdinando di Puglia.