Significava prestigio, possedere un palmento: costruzioni di un certo rilievo che ancora oggi, a vederle, esigono una rispettosa considerazione

A piedi nudi, in un incedere, senza portamento, senza vincoli di coprire distanze: due, dieci, venti o ancor più piante degli arti inferiori, brutalmente carezzevoli, quasi in un esercizio ginnastico, militare, si inebriavano nello scomporre i rubini acini prima di affidarli alle cure dionisiache del tempo. L’ibrido dio ne avrebbe donato la scintilla primordiale e istintuale, tutt’ora presente in ogni essere vivente: l’ebrezza.

Filosofi, scrittori-narratori, poeti, saggi e mistici avrebbero poi osannato il salutare fluido che è rimasto un vigoroso, ascetico, contemplativo, devoto attore, insieme al pane, nelle celebrazioni eucaristiche sugli gli altari e sulle tavole imbandite.

Citando il Parini de “Il Giorno”, quando al novo signore educandolo, rammenta le sue sconsiderate abitudini: ‹‹…Così tornasti alla magion; ma quivi/a novi studj ti attendea la mensa/cui ricoprien pruriginosi cibi/e licor lieti di Francesi colli, /o d’Ispani, o di Toschi, o l’Ongarese/bottiglia a cui di verde edera Bacco/concedette corona; e disse: siedi/de le mense reina…››.

Il Prof. Palmiotti arriva per farti omaggio dell’ultima sua inebriante opera, tra le tante già scritte e pubblicate, circa quaranta. Egli, quasi ossessivamente, per l’amore speso in tal senso e per ragione di vita, continua ad alimentarsi di cultura. È un attento conoscitore del territorio nazionale, ed in particolar modo di quello pugliese, sul quale, è la volta in cui, egli si spende meravigliosamente, librandosi ancora, a scrivere sugl’antichi palmenti.

Il percorso intrapreso, l’itinerario, non lambiscono solo, i siti in questione, né li profanano, ma li spalanca agli occhi chiusi di una memoria dimenticata. Poiché sta proprio nel sapere di dove arriviamo, il concederci la soddisfazione, nel sentirci quel che ora siamo.

L’A. ha già scritto sulle ville biscegliesi e, dello stesso ambito: sulle chiese, sui Santi, i Dolmen, i siti archeologici, la pittura sacra, sulle sacre lignee statue, sui Santuari religiosi e sui ministri della Chiesa (Sarnelli e Consiglio).

Un uomo a tutto tondo, Luigi Palmiotti, nella paradossale visione spirituale rispetto a quella soggettiva, da quasi non vedente. Un amico di cui fare affidamento per la mole di cultura messa a disposizione e non solo, per l’animo sensibile, umano e intellettuale.

I palmenti pugliesi, insieme a quelli di Calabria e della Basilicata, offrono intelligente spunto all’A. di cui egli si appropria culturalmente di un nuovo filone: aureo-pregiato-nobile-fluido sì sommamente trattato ma ancor sempre da riscoprirne i molteplici, estrosi immaginari.

Questi ci riportano ai “gioiosi stenti”, di un passato contenuto. Dico moderato laddove manca, l’eccesso e che porta l’uomo alla vera ubriacatura, allo stordimento, alla perenne insoddisfazione.

Quelle che, erroneamente, noi chiamiamo comodità, in realtà non sono altro che eccessi di benessere. Se poi sfuggono al controllo razionale possono diventare talmente nocivi che lo stato di ebrezza si eleverebbe a comatoso, alla pari dell’effetto causato da una cattiva droga sintetica.

Affidandomi a ricordi ne accuso bagliori tra i quali s’illumina la mente che ostenta eventi ancor graditi, anco se, velati di tristezza e di disagi.

Come spiritelli provocatori, balzano all’improvviso, quasi danzino, comunque saltellano come se volessero ritornare in voga per riempire quegli spazi occupati dal rammarico che, nel frattempo è divenuta amarezza.

Palmiotti parla della mezzadria, dove il concedente e il mezzadro si associano, uno con la terra e l’altro col lavoro per ricavarne, a fine corso, un qualche sperato profitto.

Pioveva a dirotto quel mese di ottobre e l’uva tagliata era stata posta, insieme agli umori sudoriferi degli addetti ai lavori, su di una piazzuola di cemento. Fu coperta da un telo non cellofanato, non erano ancora in uso. Si aspettava il mezzo che venisse a prelevarla ma, sia l’uva, sia il carretto col tino vuoto si persero, a causa del cattivo tempo. Si persero sul posto ove si trovavano: l’uva marcì sotto l’insistente pioggia mentre il vetturino, per l’impossibilità di raggiungere l’agro col carretto, impigriva, insieme con l’animale, nella stalla. Fu così che quell’uva, non diventò mai vino.

A quei tempi significava prestigio, possedere un palmento. Effettivamente erano costruzioni di un certo rilievo e che, ancora oggi a vederle, sembra che esigano una rispettosa considerazione.

Pirandello, nella novella, “La Giara” apre, nei pressi di un palmento padronale, un contenzioso esilarante tra Don Lollo Zirafa, uomo arrogante e presuntuoso con Zì Dima Licasi, simpatico e provetto concia brocche. Il caso, per una, non voluta disattenzione del concia brocche, causa un danno irreversibile. Con la panciuta anfora risanata e l’intruso rimasto dentro imprigionato e impossibilitato ad uscirne, per via della stretta cavità del vaso, si apre la tragicomica contesa di sottile, pirandelliana memoria.

Sparsi nelle campagne pugliesi, alcuni palmenti ben tenuti ed altri nelle mani del tempo e dell’intemperie, assordati dall’ebbro frinir di cicale, giacciono, come mausolei dismessi. Appaiono svogliati ad assurgere al compito loro affidato. Sono tuttora “abitati” i palmenti, sparsi nella campagna citata da Palmiotti. Non dimora Pan, il dio caprino con le sue muse: solo un piangente Bacco ed un remissivo Dionisio, inventore della vite e pensoso, mentre attende paziente, nei vecchi palmenti, l’uva maturata sui tralci delle sue viti.

E il vino fluisce a torrenti, anche nelle vene culturali dei tanti soggetti che lo decantano e ne ricordano i pregi. Ne spiegano le tecniche, antiche e moderne della pigiatura e della vinificazione e gli effetti salutari comprovati. Alcuni consigliano che, quando si alza il gomito, con in mano un bicchiere pieno di vino… non figuri in eccessi.

Veramente interessante la lettura dell’ultima opera del Prof. Luigi Palmiotti: è una enciclopedia di nozioni che lasciano il dolce in bocca e che spinge il lettore a rileggersi il testo per approfondirne i contenuti.

 

La pioggia e il vino…al tempo giusto!

Torbo il vino, dagl’acini maturi,

pigiato nel palmento all’aria aperta

di presso una vendemmia assai sofferta

per la scosciante pioggia e gli spergiuri.

Col serpe annaspa, il grappolo e la vigna

e allasca il tino vuoto di sostanza

che lascia il bevitore in latitanza

dalla cantina, sede a lui benigna…

Pur le sponsal promesse vengon meno

coscienti del mancato buon brindare…

Chi la tristezza soffre e vuol sanare

non trova che un bicchiere mezzo pieno

bastante solo per la gola asciutta

con l’acqua ch’entra in gioco a far combutta…

(S. Memeo)


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Salvatore Memeo è nato a San Ferdinando di Puglia nel 1938. Si è diplomato in ragioneria, ma non ha mai praticato la professione. Ha scritto articoli di attualità su diversi giornali, sia in Italia che in Germania. Come poeta ha scritto e pubblicato tre libri con Levante Editori: La Bolgia, Il vento e la spiga, L’epilogo. A due mani, con un sacerdote di Bisceglie, don Francesco Dell’Orco, ha scritto due volumi: 366 Giorni con il Venerabile don Pasquale Uva (ed. Rotas) e Per conoscere Gesù e crescere nel discepolato (ed. La Nuova Mezzina). Su questi due ultimi libri ha curato solo la parte della poesia. Come scrittore ha pronto per la stampa diversi scritti tra i quali, due libri di novelle: Con gli occhi del senno e Non sperando il meglio… È stato Chef e Ristoratore in diversi Stati europei. Attualmente è in pensione e vive a San Ferdinando di Puglia.