
Adria, 18 maggio,
nella nebbia del Polesine,
dove il fiume sussurra ai mulini,
un uomo scivola nel fragore
della fabbrica.
Le Cartiere del Polesine
di solito non parlano
ma il muletto ha urlato
“ho intrappolato un corpo
minacciante trascino
carne e polvere”
Polvere e memoria
sudore di generazioni,
sangue, pasticcio.
Poco prima un operaio,
pedalava con la speranza
nel cuore e nel respiro,
poi il respiro su una gamba,
soffia vuoti, non trova strade.
Un abisso s’insinua
tra la carne e la macchina.
La morte seduta guardando,
gli respira addosso,
ma non prende la sua vita,
almeno non ancora.
La morte vigila e moltiplica l’entità,
il sangue che scivola
raccoglie parole
dove l’odore di carta e ferro
è un linguaggio
che non si interrompe.
Credo di sentire ancora la voce
sul pianto che brillava pallido
pallido, come l’alba che sfuma
senza un grido, senza un sospiro.
Un volto che si fa ombra
sulle rughe del corpo che cede.
Adria ti ha visto e io ti leggo,
e vedo ancora il prima
fotografie, risate
che ti univano alla vita.
Quanto resta davvero
di quel sorriso?
Resta la memoria,
tra le labbra che non dimenticano.
Nel silenzio delle Cartiere,
l’ombra del dolore si fa urlo
che non si spegne.
Dal bianco dell’osso che emerge
sì! Qualcuno urla là,
dove il dolore non è più affilato,
ma opaco come la fine di un sogno.
La morte ti sta guardando in faccia
senza pietà,
ma anche senza rancore, attende.