L’epopea degli emigrati italiani nel secondo dopoguerra

Diretto da Gabriele Salvatores, “Napoli New York” è un film che affronta, in maniera quasi fiabesca, l’epopea degli emigrati italiani nel secondo dopoguerra, è la rivisitazione anacronistica di tematiche attuali, il politically correct che lascia spazio alla finzione.

Attraverso una regia decisa e creativa, Salvatores incastona in una cornice magica i destini di Carmine e Celestina, clandestini su una nave che li porta verso la Grande Mela, accolti dal burbero Domenico Garofalo (Pierfrancesco Favino), una sorta di Mangiafuoco dal cuore tenero, il padre adottivo che i due bambini amano ma rifiutano per non precludersi un futuro insieme.

La narrazione di “Napoli New York” sembra calcare sentieri già tracciati da scrittori come Salgari, Stevenson, Dickens, proiettando gusti graditi soprattutto Oltreoceano, stereotipi pensati ed elaborati per il pubblico americano, inserendo persino la vicenda giudiziaria di Agnese, sorella di Celestina, il cui omicidio e le proteste popolari che ne derivano mostrano motivazioni e sommosse, francamente, fuori luogo.

L’american dream di Salvatores cozza con il concetto di una dignità senza prezzo, è la povertà che combatte, con “cazzimma”, la ricchezza, è la vita da prendere di petto, la fotografia d’epoca di Diego Indraccolo e il montaggio di Julien Panzarasa conferiscono alla pellicola (consigliata solo in un palinsesto televisivo) una formalità leggera, probabilmente unico elemento a favore di un’opera ispirata ad una sceneggiatura di Federico Fellini e Tullio Pinelli, ritrovata nel 2006.


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