
Una notte insolita quella dello scorso 26 febbraio, una serata in cui il nitore delle stelle cinematografiche si è riscoperto fulgente attraverso un accennato chiaro di luna: Moonlight
La notte degli Oscar ha vissuto un finale a sopresa. Quando Warren Beatty e Faye Dunaway hanno aperto la busta, “La La Land” pareva accontentare tutti. Rimediando all’imbarazzante errore, però, l’Academy ha perseguito nella coerenza tematica di una chermesse a tinte sociali. Una notte insolita quella dello scorso 26 febbraio, una serata in cui il nitore delle stelle cinematografiche si è riscoperto fulgente attraverso un accennato chiaro di luna.
Questa, infatti, la traduzione italiana di “Moonlight”, film diretto da Barry Jenkins e premiato con tre statuette (Miglior Film, Miglior Attore Non Protagonista e Miglior Sceneggiatura Non Originale).
Un chiaro di luna, dicevamo, tenue atmosfera di frasi appena biascicate, l’eloquenza dei dialoghi è da ricercare nel livore evolutivo di una pièce teatrale di Tarell Alvin McCraney.
Mentre in “La La Land” una nota ripetuta tre volte si stagliava nell’immaginario di un tempo incalzante ma, non per questo, sempre uguale, dentro “Moonlight” il numero perfetto rintuzza le imprecisioni della vita di un afroamericano la cui educazione sentimentale sgomita a fatica fra le chiostre balneari di una violenta Miami.
Un protagonista, tre identità, come i capitoli in cui è suddiviso il lungometraggio.
Little è il bambino disadattato a cui Juan, uno spacciatore senza scrupoli, fa da guida spirituale. Il meritato riconoscimento a Mahershala Ali delinea i tratti di un ruolo interpretato con pertinace arguzia. Il Remy Danton di House of Cards sveste i panni dell’incallito politico per indossare le sciatte sembianze dell’insegnante di strada.
Passano gli anni e Chiron (nome che dà il titolo al secondo capitolo) è un ragazzo che fa dell’atto criminale la sua unica ragione di vita. Vittima di bullismo, trasgredisce l’esistenza con opzioni singolari. Realizza della propria omosessualità quando tange maliziosamente il suo migliore amico, ma è solo l’inizio di una catarsi emotiva che lo porterà a subire altri ambienti ostili.
Nella parte conclusiva della pellicola, Black sperimenta la galera, la cella è una stamberga che riflette i ricordi della sua infanzia. Little/Chiron/Black sono, adesso, un’anima sola, il frutto che cade dall’albero spoglio del suo mentore a cui il giovane cerca sempre di più di assomigliare.
Davanti alla macchina da presa di Jenkins ogni essere umano reagisce, in maniera diversa, alle difficoltà. Rabbia e rassegnazione predominano su una malinconia descritta con stile altalenante e ambiguo. Persino la scelta musicale (il soundtrack spazia da Mozart a Cucurrucucù Paloma) lascia intravedere mutamenti psicologici di un futuro accettato a busta chiusa, quella che Warren Beatty e Faye Dunaway avrebbero fatto meglio a non aprire.