
Angelina Jolie è Maria Callas nel film biografico di Pablo Larraín
”Maria” di Pablo Larraìn è un biopic atipico, probabilmente la chiusura di una trilogia composta da ”Spencer” e ”Jackie”, un omaggio del regista all’universo femminile e, nello specifico, a ”la Callas”, una diva, prima ancora che una donna, una voce che affonda nella lirica l’alone della leggenda, l’arte che, inevitabilmente, deve far i conti con il proprio passato, una migrante al contrario, da New York ad Atene, la magnificenza assoggettata alla dipendenza, la perdita dell’io interiore, alla stregua di quel suono recondito e mai sopito.
Le urla di disperazione contro lo spettacolo dell’esistenza, un palcoscenico parigino gremito solo dai domestici Ferruccio (Pierfrancesco Favino) e Bruna (Alba Rohrwacher), talenti italiani disposti, ingiustamente, in secondo piano al cospetto di una Angelina Jolie, per carità, sempre magnetica, ma forzatamente caricata dall’apoteosi stilistica del copione e, quindi, del personaggio.
Un biopic atipico, dicevamo, già perché ”Maria” parte dalla conclusione, dalla morte dei sogni, da indimenticabili interpretazioni, dall’eterno conflitto tra identità ed aspettative. La pellicola perde, a mio parere, l’occasione di grandeur, per dirla alla francese, si concentra sulla fragilità di una dea senza soffermarsi, invece, sul miracolo canoro di una Donna sui generis, una bambina e sua sorella (Valeria Golino) costrette dalla madre a prostituirsi.
”Maria” è la personificazione dell’irraggiungibile bellezza anelata da Aristotele Onassis, il rifiuto del successo inteso come corsa al denaro, la riscoperta dell’Amore come insondabile mistero, la tenerezza delle piccole cose, l’affetto di due barboncini fedeli anche per il cibo.
La Callas tratteggiata dalla Jolie è inerme davanti al tentativo di andare al ristorante ed essere riconosciuta, è attrice di se stessa, possiede grazia ma non ostentata, è l’emblema di un self control adirato, gli eccessi incastonati fra le quattro mura domestiche, una vita impossibile da comprendere appieno, ma percepibile da un’immaginazione cinematografica figlia di scelte contemporanee da botteghino.