«Se c’è una strada sotto il mare prima o poi ci troverà»
(I. Fossati)
Non è la più conosciuta e, forse, nemmeno la più riuscita. Jeorge Amado (1912-2001) ha scritto “cose” più belle. Le ho lette quasi tutte le opere dello scrittore di Bahia. Nessuna però mi ha conquistato come Mar morto (1936), Mare di Morte, nella prima traduzione in lingua italiana pubblicata dagli Editori riuniti nel 1958. In altre successive traduzioni è stato preferito un approccio anastatico – Mar morto – forse più lirico ed efficace. Mare di Morte, tuttavia, rende meglio il perimetro narrativo del romanzo.
«Chi ha decifrato il mistero del mare? Dal mare vengono la musica, l’amore e la morte. E non è forse sul mare che la luna è più bella ? Il mare è incostante. E come lui è la vita degli uomini dei saveiros (piccole imbarcazioni, strette e lunghe). Chi di loro ha avuto una morte uguale agli uomini della terra che accarezzano nipoti e riuniscono le famiglie nei pranzi e nelle cene?»
Spesso la morte in mare è senza sepoltura. Anzi è il mare stesso il sepolcro. Il mare inghiotte la vita, le spoglie e persino il nome. S’impone una reminiscenza. Il mendicante Dei Sepolcri impegnato a «Penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne, E interrogarle». Si pensa alla dottoressa Cristina Cattaneo. Nel suo libro Naufraghi senza volto, l’anatomo-patologa racconta del difficile compito di restituire un’identità ai resti dei migranti morti nel nostro mediterraneo, un Mare di Morte, di uomini, donne, bambini e della nostra civiltà.
Stiamo affogando, stiamo morendo come il mare ad ogni naufragio. La quiete dopo la tempesta omicida: «È il mare che è morto, è il mare che mori … olio, fermo, senza un’onda». Amado racconta che nemmeno il mare sopravvive alle domande dei superstiti: dove sono le navi, i marinai, i naufraghi? «Dove sono i bambini?»
È una notte senza stelle quella del mar morto. Con questa immagine si apre l’epilogo del romanzo. Ma la conclusione non è cupa. Tutt’altro. È dedicata a Lemanjiá, la signora del mare. Dopo la tragedia, sulle acque appare «una donna coraggiosa che lottava. La lotta era il suo miracolo. Cominciava realizzarsi. Nel porto i marinai videro Lemanjiá, quella dai cinque nomi»: padrona delle acque, di signora degli oceani; Jananina, come la chiamano i ne(g)ri che sono i suoi figli prediletti, che danzano per lei e la temono più di tutti, Principessa di Aiocá e Inaê, regina di misteriose terre che si nascondono nella linea azzurra dell’orizzonte, Maria, come la chiamano le donne del porto.
Le barche hanno solo un nome. Gli uomini, no. A Bahia tutti ne hanno almeno due, perché nessuno è solo marinaio, solo ne(g)ro, solo puttana, solo moglie, solo marito, solo tristezza, solo allegria, solo musica, solo dolore, un solo vento, un solo mare. Un nome non basta. Iemanjiá, la speranza, ne ha cinque, come le dita di una mano, perché ciascuno possa sperare di afferrarla e lottare con lei.
p.s. come apprezziamo l’abbinamento dei vini con le pietanze potremmo coltivare il gusto di accompagnare la lettura di un testo con l’ascolto di musica. Consiglio quindi “Mio fratello che guardi il mondo”, di Ivano Fossati: «Se c’è una strada sotto il mare prima o poi ci troverà se non c’è strada dentro al cuore degli altri prima o poi si traccerà».