
I ruoli? Li fa tutti Favino
“L’ultima notte di Amore” non è solo un noir nel plot e nelle ambientazioni scure, ma è quella che il regista Andrea Di Stefano definisce “una discesa negli inferi”, nella coscienza del protagonista Franco Amore, un cognome che spiega il mancato apostrofo del titolo, la diatriba fra eros e thanatos che traccia sentieri di morte lungo un’autostrada verso una Milano accogliente e fedifraga, la metropoli che accoglie a braccia aperte un pugliese per poi ghettizzarlo per la sua incorruttibilità, in una sorta di “Serpico” ante litteram.
Un film, questo girato da Di Stefano, nel quale il sempre magistrale Pierfrancesco Favino affronta il dramma del prepensionamento con una responsabile leggerezza di chi è integro per indole, per missione, quasi seguendo una passione forse non troppo remunerata ma, certamente, ricca di passione ed impegno civile.
È lo stesso Favino a sollevare la questione del gap salariale alla base di scelte opinabili che lo spettatore segue, un frame dopo l’altro, con arguta agonia e celata soddisfazione, un action che arriva dritto al cuore sfruttando, se così si può dire, la comunità cinese testimone oculare della criminalità nel sottobosco meneghino, la mela marcia stigmatizzata persino da coloro che (fortunatamente la maggioranza) osservano la legge nonostante si vedano costretti a sbarcare il lunario.
La Milano di Di Stefano e Favino è una città borderline, deserta, come si evince da un lungo pianosequenza, ma, al tempo stesso, caotica di sentimenti repressi dalle luci della notte, teatro di legalità soffusa, capace di cogliere le sfumature di una fragilità che diventa determinazione, la condivisione con il pubblico in sala come quella con la propria Donna.
Un personaggio di Boris diceva: “Una volta c’erano i ruoli, per gli attori. Adesso li fa tutti Favino”. Di sicuro quelli che accetta sa come valorizzarli.