La vergognosa definizione di “carico residuale” e la terribile ultima tragedia di Cutro hanno sollevato, ancora una volta, un polverone riguardo le indecenti e mortifere condizioni con cui i migranti affrontano il viaggio della speranza, lontano da guerre e povertà, diretti verso una vita più dignitosa ed umana. A testimoniarlo è l’andriese Graziana Di Noja, psicoterapeuta sulla nave ONG di Medici Senza Frontiere nel Mar Mediterraneo, Geo Barents.

Ciao, Graziana. Consideri una missione il tuo lavoro da psicologa
sulla nave ONG di Medici Senza Frontiere nel Mar Mediterraneo, Geo
Barents?

Questa domanda mi fa sorridere perché il termine “missione” è proprio quello che si usa per identificare i periodi di lavoro umanitario, in nave in questo caso, ma anche negli altri contesti. Credo stia proprio a significare, in ambito umanitario, il lavoro in contesti complessi, per un periodo circoscritto in cui sei chiamato a svolgere una funzione specifica a beneficio di un destinatario. Ecco, direi che quella da psicologa in ambito umanitario è una missione in questo senso: avere un obiettivo, portando la propria professionalità e umanità in contesti intensi e quasi “totalizzanti” che lo richiedono. Sicuramente lavorare con una ONG e in genere in ambito umanitario comporta la condivisione di valori importanti, come la tutela della vita, l’accoglienza, l’avere a mente l’altro con i suoi bisogni e desideri. Quella vision è alla base della scelta di lavorare in un ambito piuttosto che in un altro, ma non sento questo lavoro come una missione alla “Giovanna D’Arco”, piuttosto lo vedo come un contesto di intervento interessante in cui gli psicologi con una specifica formazione a leggere contesti possono contribuire, insieme al resto del gruppo di lavoro, in maniera significativa.
Qual è stata l’esperienza più forte che hai vissuto a bordo dell’imbarcazione umanitaria?

Io sono stata particolarmente “fortunata” perché durante i mesi a bordo di Geo Barents è successo di tutto. Un’esperienza forte, ovvero emotivamente intensa, è stata la prima volta che in radio, durante la notte, è stato annunciato il “ready for rescue” e quindi ti rendi conto che di lì a poco i tecnici SAR (search and rescue) andranno in mare a salvare persone dall’acqua e tu avrai l’onore e la gioia di accoglierli a bordo.

Esperienza fortissima è stata quella dello sbarco selettivo di Catania del 6 novembre 2022: è stato agghiacciante, per il Team di MSF ma per i nostri ospiti ancora di più, condividere un’esperienza comune fino a quel momento e vedersi poi separare in base a criteri “astratti”, non condivisi e poco aderenti alla realtà.

Le persone a bordo erano 576, tra cui donne, bambini, famiglie e uomini singoli: tutti avevano affrontato un viaggio in mare in balia delle onde, tutti erano passati per i centri di detenzione illegali in Libia, tutti erano a bordo con diversi problemi sanitari e psicologici dovuti alle esperienze di violenza estrema che subiscono, tutti erano in mare da oltre 10 giorni.

È stato sconvolgente dover comunicare la scelta del governo, avendo noi come staff il privilegio ma anche l’onere di essere l’unica interfaccia tra i sopravvissuti e le autorità. Ci sono state scene di panico, disturbi fisici di origine psicogena, episodi di rabbia e frustrazione. Se viene meno il clima di fiducia che si crea all’interno di una operazione SAR con i sopravvissuti, e inizia a serpeggiare diffidenza, ogni cosa verrà vissuta con dubbio e malcontento perché vengono assalite le regole del gioco su cui si fonda quel sistema di convivenza fino a quel momento.

Oltre a questo, ho avuto il privilegio di assistere ad una nascita a bordo: con tutta l’équipe medica abbiamo assistito una donna al nono mese di gravidanza salvata dal mare solo il giorno prima. La signora, in viaggio sola con tre figli minori, dopo due anni in Libia, ha dato alla luce Alì con noi, sulla Geo Barents: quello è un evento che ti cambia e ti dona altra forza, è l’emblema della vita che resiste.

Al netto delle ultime discutibili dichiarazioni del Ministro Piantedosi, credi che la consapevolezza del viaggio da affrontare possa davvero rappresentare un deterrente per non partire?

Me lo sono chiesto tante volte, e l’ho chiesto alle persone che ho incontrato in questi 9 anni di lavoro con le persone migranti.

Credo che non basti sapere quanto il viaggio sia duro e potenzialmente pericoloso, per smettere di desiderare la possibilità di una vita migliore. Semplificando la questione, è come dire: sapere che il fumo fa male, basta a far smettere di fumare?

Da un lato c’è ancora una certa reticenza a voler accettare che il viaggio sia davvero così pericoloso: parlo del viaggio dal paese di origine alla Libia, prima ancora che in mare. Molta gente muore ancora prima del mare, perché costretti a intraprendere viaggi non tutelati e non legali per recuperare anche una sola chance di vivere in maniera dignitosa, andando oltre la fatalità di essere nati in quel paese piuttosto che da un’altra parte. Alla fine non scegliamo quando nascere, né dove: è fortuna per noi essere da questa parte, ma non abbiamo alcun merito. Lo stesso vale per chi intraprende questi viaggi, mossi dalla speranza di poter scegliere e vivere con dignità, laddove non hanno colpe nell’essere nati in quella parte del Mondo in cui si combatte per sopravvivere.

Tornando al viaggio: no, credo non basti come deterrente sapere quanto sia pericoloso. Tra la certezza di morire e la possibilità, seppur rischiosa, di potercela fare da un’altra parte, spesso prevale il desiderio di vita. E se ci riferiamo alle partenze dalle coste libiche, a volte la gente si trova nella condizione di non avere più scelta, nuovamente. Senza più documenti, allo stremo delle forze e non più utilizzabili nei campi di lavoro, capita che vengano forzati a partire; o comunque succede che non abbiano più neanche la possibilità di tornare indietro: partire e andare avanti è l’unica opzione.
Il lavoro d’equipe può alleggerire il rischio di navigazione dei migranti?

Come équipe, una volti salvati dal pericolo in acqua, la prima cosa che si fa è rassicurare queste persone che non verranno riportate in Libia o nel paese da cui sono partite: è la paura più grande, quella che riesce ad essere sfatata solo una volta toccata terra in Italia.

Ora col decreto ONG, i tempi che i “sopravvissuti” trascorrono a bordo delle navi SAR si sono, per certi versi, contratti: essendo possibile effettuare un unico salvataggio durante una operazione, immediatamente ci si deve dirigere verso un “posto sicuro” o porto di destinazione, in Italia, per cui va a finire che si trascorre più tempo a raggiungere il porto assegnato che a effettuare operazioni di ricerca e soccorso nella zona SAR.

In quei giorni tra il salvataggio e lo sbarco c’è un grossissimo lavoro di orientamento al territorio che viene fatto per gli ospiti, proprio per prepararli a quello che avverrà una volta a terra.

A bordo si lavora tantissimo per diminuire i livelli di tensione e angoscia che i sopravvissuti portano. Insieme alla grande gioia e gratitudine che queste persone hanno verso chi li ha sottratti ad un destino spesso infausto, c’è anche la preoccupazione per chi non ce l’ha fatta, per chi non è riuscito a partire, per i familiari rimasti nei paesi di origine che non hanno più loro notizie da mesi o anni: anche occuparsi di riconnettere famiglie, dando notizie del fatto di essere ancora vivi, è qualcosa che a bordo si fa e contribuisce a far sentire le persone al sicuro.

Ma oltre a cercare di fare del nostro meglio per dare ai sopravvissuti degli strumenti utili a decifrare il nuovo contesto nel quale stanno per sbarcare, quello che proponiamo è un supporto a tutto tondo, in cui anche ascoltare musica, fare giochi di società, prendersi cura degli ambienti insieme “alleggerisce” il viaggio e quel momento sospeso ancora in acqua: si aspetta insieme, ci si prende cura di quei rapporti, gli ospiti attraversano quella fase da essere “sopravvissuti” a essere persone con un futuro davanti e noi li accompagniamo in questa fase.

Come immagini, in futuro, sulla terra ferma, la vita tua e di chi
sopravvive a queste immani tragedie?

Le missioni sono tali anche perché ad un certo punto finiscono, e si torna sulla terra ferma.

Per chi attraversa il mare inizia una fase lenta e complessa di comprensione di quello che vuol dire essere in Italia- in Europa.

lo immagino un percorso mai semplice, mai finito, che continua per tutta la vita: tenere insieme due Mondi, due appartenenze, diversi strappi, le delusioni e le conquiste, la rabbia e la gioia, un passato difficile e un presente incerto non è un’operazione che si può concludere e liquidare in poche settimane. Per certi versi, sapere che chi arriva in Italia ha un sistema di accoglienza che, pure con i suoi limiti, non lascia le persone migranti sole a sé stesse ma prevede un percorso di assistenza e accompagnamento mi rincuora. Dico spesso a chi incontro in nave di fidarsi degli operatori dei centri di accoglienza e di lasciarsi guidare: anche lì è importante la relazione di fiducia che si crea tra ospiti e operatori dei centri, pur essendo io consapevole dei numerosi limiti e margini di miglioramento che si potrebbero apportare al sistema di accoglienza in Italia.

Vorrei che le persone che arrivano in Europa avessero la possibilità di scegliere il Paese nel quale vivere, nel quale fare domanda di protezione, ma questa è pura utopia per il momento, nonché parte del problema legato alla gestione dell’immigrazione.

Nella realtà, mi auguro che le persone fuggite da condizioni di vita non dignitose (anche la fame è tra queste, non solo la guerra, le catastrofi e le persecuzioni) riescano a riappropriarsi di sé stesse e riacchiappino la capacità di desiderare ancora.

Per noi operatori pure la “ripresa” è dura: passiamo da contesti con una portata adrenalinica enorme, contesti di intensa condivisione e vita “comunitaria”, a ritmi velocissimi e che richiedono una lucidità di analisi, pensiero e azione estremi ad una vita con un ritmo più lento, dove la quotidianità ha dei tempi più dilatati e la vita e i rapporti sono andati avanti anche senza di te. Forse condividiamo con le persone che salviamo dal mare questa sensazione di essere sempre un po’ sospesi: di appartenere a dei contesti, a dei Mondi, ma sempre con lo sguardo altrove, ad altre appartenenze.


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Iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Puglia, ho iniziato a raccontare avventure che abbattono le barriere della disabilità, muri che ci allontanano gli uni dagli altri, impedendoci di migrare verso un sogno profumato di accoglienza e umanità. Da Occidente ad Oriente, da Orban a Trump, prosa e poesia si uniscono in un messaggio di pace e, soprattutto, d'amore, quello che mi lega ai miei "25 lettori", alla mia famiglia, alla voglia di sentirmi libero pensatore in un mondo che non abbiamo scelto ma che tutti abbiamo il dovere di migliorare.