Lucky era un cagnolino assai fortunato. Aveva un padrone che lo amava come se fosse un figlio. Lo portava a passeggio ogni giorno e non importava se fosse caldo o freddo, se ci fosse un vento terribile che sembrava dovessero volare entrambi verso il mare o un’aria così afosa da essere costretti a muoversi al rallentatore per evitare di inondare la strada di sudore, uno, e di bava, l’altro.
Ogni mattina, alle sette in punto, i due uscivano e si dirigevano al giardinetto vicino casa. Il padrone si sedeva alla panchina, chiamava a sé il suo cagnolino e lo liberava.
– Sta qua intorno, piccolo – si raccomandava – Ok?
Lucky restava là fermo, lingua penzoloni e il capo reclinato ad ascoltare, con gli occhi che brillavano di felicità, mentre quello gli slegava il guinzaglio.
– Ok – gli rispondeva in silenzio, muovendo appena appena la testa, prima di saettarsi come un razzo sparato a tutta velocità verso la libertà.
L’uomo tirava fuori dal suo borsello due cose, il quotidiano e una piccola palla di gomma rosa, non più grande di un pugno. La poggiava accanto a sé sulla panchina e iniziava a leggere. A quell’ora c’era poca gente in giro. Solo i soliti podisti, che però prediligevano il lungomare per le loro corse mattutine.
Chi non aveva impegni, ronfava ancora, chi doveva andare a lavoro era già in viaggio o in bagno per i ritocchi finali, i ragazzi ancora dormivano e le mamme si preparavano al combattimento per la sveglia mattutina.
– Forza è tardi, alzati, che devi ripetere.
– Maaaaaaa. E’ presto. Sono appena le sette e mezzo. Il prof non mi interroga, tranquilla; ne ha un bel po’ di interrogazioni da finire, prima di ricominciare il giro. Fammi dormire un altro po’.
– E’ TARDIIIIIIIIII – rincarava la dose, un’altra mamma, lì vicino – SE VENGO LA’ UN’ALTRA VOLTA, FINISCE MALE.
– MADOOOOOOO – si lamentava da sotto le coperte un altro figlio, sussurrando tra sé – quanto rompe questa – ( che se questa avesse sentito allora sì che sarebbe stato in pericolo. Questa sarebbe senz’altro passata all’artiglieria pesante, altro che)
Ma tali scenette avvenivano lontano.
Nel giardinetto tutto taceva.
L’uomo leggeva, ogni tanto controllava il suo cellulare, più per abitudine che per necessità. Ogni tanto fischiettava e lanciava la palla, meccanicamente.
Lucky scorrazzava felice: saettava da un lato all’altro del parco, quasi a prenderne le misure. Ogni tanto si fermava, sollevava il musetto e si guardava intorno, annusava l’aria e si dirigeva verso l’albero che lo stava attirando.
Adorava gli alberi di quel parco. Ce n’erano veramente di belli, lì intorno. E dire che lui, di alberi, ne aveva visti tanti.
Il suo padrone era un tizio che andava in giro spesso e non lo lasciava mica a pensione, no no; lo portava con lui in ogni spostamento.
In fondo era piccino e ben educato. Gli dicevi una cosa, e lui, l’afferrava al volo. Non c’era mai stato bisogno che il suo padrone dovesse ripeterla. Mai.
Ricordava ancora il sapore di quell’albero rosa, immerso nel parco immenso di un castello. Alcuni petali gli erano svolazzati dritto sul muso e lui non aveva resistito: li aveva agguantati e masticati velocemente, per timore di essere colto in flagrante, anche se, detto francamente, il suo padrone gli aveva raccomandato sempre di non mangiare quello che trovava a terra; non aveva mai fatto menzione a ciò che veniva dal cielo. Ma per sicurezza…
Buoni. Erano propri dolci e delicati.
E poi c’era quello che gli era rimasto un po’ di traverso. Non era stato possibile avvicinarsi più di tanto. Lo aveva rimirato da lontano: ne aveva respirato la solidità, la forza e allo stesso tempo la leggerezza con cui stava, senza appesantire, con la sua presenza, il muro di cinta sul quale cresceva.
Ma quella volte il guinzaglio era stato tenuto corto. Vedere e non poter toccare, che grande amarezza!
Ultimamente un altro albero aveva conquistato il suo cuore. Una grande quercia, immersa in un bosco, nemmeno tanto lontano.
Uaoooooo…. Che scorrazzata!
Profumava di erba, un odore fresco, pungente.
Annusandolo, aveva respirato leggende fantastiche, ascoltato il belato delle greggi in transito decenni di anni prima e si era riempito lo sguardo di un’immensa quantità di ricordi impressi tra le pietre che lo circondavano.
E che dire dell’allegria che circondava quel buffo albero con le dita mozzate, che risuonava di voci incomprensibili?
Quella volta lì, era rimasto a gironzolare là intorno per tanto tempo, cercando di capire che cosa si dicessero tutti quei tipi… niente, non ci capiva niente.
Solo le risate. Quelle riusciva a capirle: che poi la gente quando è felice parla tutta la stessa lingua, vero?
All’improvviso, mentre correva inseguendo ricordi e immagini, un fischio, lo richiamò all’attimo presente. Ne conosceva il messaggio.
Corse a riprendere la palla, che sapeva essergli stata lanciata perché il suo padrone, aveva bisogno di essere periodicamente rassicurato della sua presenza.
Con la lingua penzoloni, tenendola tra i denti, tornò alla panchina e depositò la pallina ai piedi dell’uomo. Quello, senza nemmeno distogliere lo sguardo dal giornale, allungò la mano, gli fece una rapida carezza e riprese la palla, portandola ancora una volta vicino a sé.
Lucky attese che il rituale si compisse, ancora una volta, e, subito, si rilanciò alla conquista di un altro albero.
Quella volta là, però, frenò bruscamente, si voltò a guardare il suo padrone con la testa chiusa tra due fogli di carta, lontano da tutto quello splendore di odori, di luci e colori, lontano persino dalle sue emozioni e provò a richiamare la sua attenzione con un leggero colpo di voce.
Non ci fu reazione.
Amorevolmente sconsolato, scosse il capo e sorrise tra sé – Ah, questi uomini, che tipi strani. E chi lo capisce, il loro modo di amare… – e riprese a correre, felice.
Un omaggio a Zezè, a Ercolino, a Noirette, a Timmy, a Lupo.
Il disegno è di mio padre, Dante Colarossi.