Se è vero che di neofascismo e di degenerazione di orientamenti di destra che si parla, è anche vero che prima di arrivare a questi estremismi, bisognerebbe soprattutto prestare attenzione a tutto quello che sta succedendo attorno

La notizia suonava strana: al telegiornale pochi giorni fa veniva chiesto agli abitanti di Macerata per ordinanza comunale di non uscire di casa, a causa di sparatorie in pieno giorno in punti diversi della città. Macerata? Sparatorie? Con un clima che sembrava rievocare quello delle grandi capitali europee nelle loro ore più buie, improvvisamente è riemersa chiara e palese, quasi imprevedibile,  una questione (o più un pericolo..?) che sembrava essersi smorzata (o quantomeno aver perso vigore) nello trascorrere degli anni. Non si è parlato di attacco terrorista, anche se c’era un uomo armato che sparava  in giro per la tranquilla città marchigiana, non si è parlato di estremismo, anche se gli omicidi commessi sono stati in nome di un’ideologia (non ideale) radicale fino al punto di uccidere, e non si è parlato quasi per nulla dei feriti, per poco non vittime, tutti stranieri. Eppure quello di Macerata non è stato un attacco politico, perchè di politica qui non si parla, ma  della conseguenza di un clima (sociale, ideologico, e sicuramente… anche politico) degenerato. Il populismo, la demagogia, la facile propaganda che parla alla pancia ma non alla testa ha conseguenze momentaneamente impalpabili, eppure poi improvvisamente concrete.

Se è vero che di neofascismo e di degenerazione di orientamenti di destra che si parla, è anche vero che prima di arrivare a questi estremismi, bisognerebbe sopratutto prestare attenzione a tutto quello che sta succedendo attorno, in questa nostra nuova (e vecchia) cultura, che sguazza ormai in piena campagna elettorale (ma poco importa, dato che la situazione non sarà diversa dopo il 4 marzo), tra promesse strane, attacchi precisi e capri espiatori classici e antichi. Perchè se è vero che l’autore del raid di Macerata militava nell’estrema destra, è anche vero che è stato candidato con la Lega Nord. Se poi ci aggiungiamo il ‘movente’ fondamentale, la fantomatica punizione dello straniero (sull’onda di un tragico caso di cronaca di qualche giorno fa), corredato al classico ritorno al mito dell’invasione della penisola e al costante riferimento alla necessità di epurare e cacciare, temi tanto cari anche ai meno estremisti del centro-destra, il quadro diventa completo.

Proprio in questo periodo è nelle sale “Sono tornato”, film di Luca Miniero (regista di Benvenuti al Sud), che immagina l’ipotetico ritorno del Duce nel 2018, sulla falsa riga di un altro film tedesco, “Lui è tornato”, del 2014, che immagina l’ipotetico ritorno del Furher. In entrambi i casi i due “personaggi” interagiscono non con attori ma con gente reale, che sottolineano nel parlare con questi ultimi che ci sono troppo stranieri, che lo stato non ce la fa e che non possono stare tutti qui, se ne devono andare. Ed appare evidente che a parlare non è solo lo stereotipo, ma un grande cervello collettivo che demagogicamente ci ha insegnato a individuare un colpevole ben preciso.

Non è difficile da capire, in qualsiasi periodo di crisi la demagogia vince e le estremizzazioni politiche (di ogni genere) se ne nutrono. La paura dello straniero, la xenofobia elementare, il ripudio della multietnicità, il mito dell’invasione, la retorica del “si stava meglio”, l’instabilità e il pregiudizio semplice, fanno da cornice a tanti piccoli avvenimenti che sono passati inosservati:  la presenza di 2700 pagine su Facebook di estrema destra, il tentativo di ricomporre la scritta Dux sul monte Giano, esempi innocui di una strana nostalgia  che mostra un clima ideologico-politico sempre più al limite, accanto a dati che descrivono una questione sociale più ampia e preoccupante, riguardante appunto gran parte dell’Italia.

Si stava bene quando si stava peggio, si stava meglio quando c’era “lui” sono frasi comuni, talvolta anche svestite di significati politici, che sentiamo tanto dal fruttivendolo quanto nei programmi tv, indici di una nostalgia pericolosa per un passato lontano ma oscuro che talvolta dimentichiamo essere stato una delle pagine nere di questa Italia. Emblematica è la copertina del numero di Internazionale di questo mese, sul tipico sfondo blu del giornale c’è solo una didascalia, una frase chiave presa da un articolo del The Guardian, che inquadra così il problema: “Più di settant’anni dopo la morte di Benito Mussolini, migliaia di italiani stanno aderendo a gruppi che si definiscono fascisti. Tra i motivi ci sono i modi in cui viene raccontata la crisi dei migranti, l’aumento di notizie false e l’incapacità del Paese di fare i conti con il passato.”, evidenziando tre punti chiave: racconti sbagliati, notizie false e mancanza di memoria storica.

Quasi profeticamente, il 14 gennaio ZeroCalcare, fumettista romano, pubblica una storia sul L’Espresso (oggi disponibile online) in cui fa un resoconto (tragicomico, com’è nel suo stile) di quelle che definisce ‘le dieci banalità che renderebbero più igienico il dibattito pubblico sui nazisti’, individuando le superficialità con cui i media trattano (ed evitano) l’argomento, puntando l’attenzione su pestaggi e fatti di cronaca passati talvolta in sordina, e concludendo così:  “va bene parlarne, ragionarci insieme e confrontarci, ma magari non come se commentassimo al bar i risultati di una partita a bocce. Perchè questa non è una partita a bocce”.

Ciò che è successo a Macerata forse ha portato nuovamente l’attenzione sui rischi della degenerazione della banalità dell’ideologia, che oggi si traveste nella politica e nella religione, e si confonde nella banalità della demagogia che fa male  ad una società innanzitutto fortemente spaventata.

E’ il discorso vecchio come le ideologie stesse, quello di una Hannah Arrendt tormentata dalla banalità del Male al processo di Norimberga, che portava (e porta) a chiedersi se è così facile uccidere. La banalità del male è anche la banalità dell’ideologia, è l’imprevidibilità del nazi che riemerge apparentemente sopito in settant’anni di storia,   è  il pericolo della chiusura. Chiudersi è sinonimo di pericolo. Si sono dovuti chiedere in casa gli abitanti di Parigi durante gli attentanti del 13 novembre 2016, come si sono chiusi in casa gli abitanti di Macerata, come ha deciso di chiudersi l’Inghilterra della Brexit, gli U.S.A del post Trump, come vorrebbe chiudersi una certa Italia pro Salvini.

La chiusura genera le ideologie, i radicalismi, la retorica . È nel chiuso dei ghetti francesi che l’Isis fa opera di radicalizzazione sulle giovane menti. Chiudersi è pericoloso. In ogni caso.

Permettete questo paragone, metaforico.

Durante il secondo anno della Guerra del Peloponneso, Pericle per difendere Atene dalle invasioni del nemico spartano, chiese la chiusura delle mura delle città. La città fu difesa dal nemico, ma non dalla peste: la chiusura delle mura portò alla proliferazione delle  malattie,  alla scomparsa dei costumi sociali, alle sommosse e all’epidemia. Lo stesso Pericle morì di peste, così che difese la città dal nemico, ma la chiuse esponendola pericolosamente al proliferare delle malattie, dei germi e al dilagare del morbo.

La “morte”, e il pericolo spesso vengono proprio dall’interno, se il focolare diventa focolaio. Chiudersi genera morbo. Chiudersi è pericoloso.