L’uomo, per poter rimanere in vita, deve riconoscere di appartenere ad un ramo, deve saper custodire la sua origine

Si sa che lettura è una delle esperienze più belle che l’uomo possa fare. Già Seneca così scriveva a Lucilio: «Cerca ogni giorno nella lettura un aiuto per sopportare la povertà e affrontare la morte e tutte le altre sventure umane». A leggere i classici, poi, si rimane ogni volta stupiti e ammirati, mentre si considera come quella massima del filosofo, quella precisa parola usata dallo scrittore, quell’esatta similitudine descritta dal poeta appaia come la più idonea a raccontare ciò che abita l’anima e la mente del lettore. E in questo esercizio Dante rimane insuperabile.

Siamo alla fine della seconda cantica. Dopo aver percorso le balze della montagna del Purgatorio e aver incontrato le anime dei peccatori macchiatisi dei sette vizi capitali (superbia, accidia, invidia, ira, avarizia, gola, lussuria), Dante si immerge nelle acque purificatrici del Paradiso terrestre e si dichiara ormai purificato e mondo da ogni colpa:
Io ritornai da la santissima onda
rifatto sì come piante novelle
rinnovellate di novella fronda,
puro e disposto a salire alle stelle. (Purg. XXXIII, vv. 142-145)

Il ritorno all’innocenza da parte di Dante non è un ritorno magico. Esso ha luogo solo dopo aver percorso in lungo e in largo la salita della montagna purgatoriale. Ed è qui la prima considerazione importante. Per diventare uomini occorre sudare e salire la montagna della vita; occorre mettersi in cammino in compagnia di un Virgilio disposto a fare da guida (la ragione che aiuta l’uomo a distinguere il bene dal male, il vero dal falso) imparando ad affrancarsi da quei vizi che seppelliscono l’anima, primo fra tutti la superbia che fa dire «prima io e le mie esigenze» e mai «prima tu, perché ti voglio bene».

La seconda considerazione riguarda le motivazioni del viaggio del pellegrino. Dante ha potuto sopportare la fatica della salita, corrispondente al lungo lavorio interiore della sua anima (ad ogni incontro con i peccatori, infatti, corrisponde una nuova tappa del suo riesistere, una stazione della sua rinascita), perché abitato dal desiderio di riabbracciare la donna della sua vita che lo attende sull’apice del secondo regno. «Tutto questo per una donna?» si potrebbe obbiettare.

È che Beatrice guida, precede e illumina il desiderio di armonia che abita l’anima di Dante. Desiderio di armonia che aspira a diventare pace. Pace su tutta la terra, partendo da Firenze; pace nella Chiesa, corrotta e lontana dai dettami evangelici; pace nel cuore di ogni creatura che «solo in Lui veder ha la sua pace» (Par. XXX, 102). Questo è il desiderio che ha tenuto vivo Dante per tutta la sua vita e che non gli ha permesso di disperare, nonostante l’esilio, il distacco violento dalla sua patria e dai suoi affetti. Un desiderio grande, ambizioso, alla cui rinuncia non si è mai arreso; ed è forse questo che gli ha concesso di «salire alle stelle». L’esempio di Dante sembra suggerirci che per poter vivere e sostenere la fatica di esistere occorre custodire dentro di sé il desiderio delle stelle e la consapevolezza dell’immenso valore della vita. Questa vita, quella che vivo ora, se pur offuscata dal buio di una selva.

A questo punto è utile soffermarsi sull’immagine vegetale che il poeta utilizza per significare la sua nuova condizione morale. Perché il ricorso all’immagine delle «piante novelle / rinnovellate di novella fronda»? Quando nel terzo canto dell’Inferno deve descrivere le anime dei dannati che si gettano nella barca del traghettatore Caronte, Dante scrive:
«
Come d’autunno si levan le foglie
l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo
vede a la terra tutte le sue spoglie,
similemente il mal seme d’Adamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo. (Inf. III, 112-117)

Le anime che si gettano nella barca di Caronte appaiono come foglie che in autunno, staccandosi dal ramo che le teneva in vita, raggiungono il suolo. A prevalere qui è la condizione psicologica del distacco del «mal seme d’Adamo». Come la foglia, per poter continuare a vivere, ha bisogno di rimanere legata al ramo, così l’uomo, per esistere deve saper indagare, conoscere e custodire il Senso di tutte le cose. Il ramo sembra aprire e chinare gli occhi sulla terra per scorgere le «sue spoglie», come quel padre che nel vangelo di Luca continua a considerare suo il figlio minore, nonostante l’abbandono: «Questo mio figlio era morto ed è tornato in vita» (Lc 15, 24).

L’uomo, per poter rimanere in vita, deve riconoscere di appartenere ad un ramo, deve saper custodire la sua origine. E come Adamo non ha subìto per sempre il castigo di Dio, ma ha sperimentato la misericordia del Cristo nuovo Adamo, così ogni figlio di Adamo può rinascere accettando questo Amore originario che lo redime e lo salva. Grazia a Cristo il «mal seme» è diventato un ramo capace di rivestirsi di «novelle fronde» pronte a corteggiare il fiore più bello:
In forma dunque di candida rosa
mi si mostrava la milizia santa
che nel suo sangue Cristo fece sposa. (Par. XXXIII, vv. 1-3)

Leggere Dante è rinascere ogni volta con lui. Ecco il miracolo della Divina Commedia. E della lettura.