
Il ritorno alle scene dell’attore tranese Michele Lattanzio: un dono d’amore.
Non sono un critico teatrale, sia ben chiaro. Nondimeno ci tengo a raccontarvi questa storia che, al di là del grande valore artistico che ha rappresentato, ci offre un’importante opportunità per comprendere la straordinarietà di quello che io considero il più grande spettacolo a cui assistiamo quotidianamente: la Vita.
Nella accogliente cornice della terrazza di palazzo Beltrani, a Trani, il 24 settembre, a conclusione della seguitissima manifestazione culturale dei Dialoghi di Trani, edizione 2017, è andato in scena lo spettacolo teatrale tratto dal racconto “Aspetta te stesso” scritto da Walter Veltroni ed interpretato magistralmente da Michele Lattanzio che, con questa rappresentazione, torna a calcare le scene dopo un lungo periodo di assenza.
Partito da Trani molti anni fa per inseguire il sogno di diventare attore, Michele studia presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, S. D’Amico, di Roma e realizza il sogno della sua vita con una serie di esperienze con i Grandi del teatro: Zeffirelli, Lavia, Patroni Griffi, Luca de Filippo, Scaparro e la Falk…..
Gli appassionati di teatro e quelli tra di voi che hanno una “certa età” possono facilmente intuire la portata della sua carriera artistica.
Quando Michele racconta la sua vita passata gli brillano gli occhi; descrive le magnifiche e sontuose scenografie, racconta aneddoti pittoreschi – quelle uscite un po’ folli dei grandi registi, degli attori che li rendono così Super Partes- e poi parla di lei, della Falk , ”la gran signora, la Diva”, con un’ammirazione che incanta e trasporta chi ascolta, su quei palcoscenici, in quei camerini….
E poi le cose cambiano, finiscono le grandi produzioni teatrali e passa alla televisione con partecipazioni a serie Tv, note al grande pubblico: Il maresciallo Rocca, Cento Vetrine, Distretto di polizia….
E poi… il silenzio. Il ritorno, subito come un’ingiustizia della sorte, nella sua piccola realtà cittadina, tra gente comune, bella gente, gente a cui voler bene e da cui farsi amare, rispettare, ma così lontana dal sogno. E passano gli anni e nulla succede.
E poi un evento tragico irrompe nella vita di Michele a sconvolgere quelle poche certezze che ancora resistono di fonte ai tanti dubbi che assalgono chi vede il flusso della propria vita interrompersi in modo inspiegabile.
Ed è da quell’evento che Michele riesce a trarre forza per ricominciare, per riconoscere nel proprio sogno, un valore più alto, una sorta di missione. Fare della propria arte uno strumento d’amore per tutti quelli che non trovano dentro di sé “il coraggio di aspettare se stessi”
Per la prima volta, dopo tanti anni, le recriminazioni lasciano il posto ad una ferrea determinazione: portare in scena QUEL testo, dare vita a quei protagonisti, due fratelli che vivono le drammatiche vicende di una famiglia smembrata, in cui l’abbandono del padre, pur restituendo il silenzio e la calma ai propri figli, priva i familiari del supporto economico che consente loro la sopravvivenza: i ragazzi e la madre sono costretti essi stessi ad abbandonare l’ambiente domestico e a trovare rifugio in un centro di accoglienza dove stazionano, privati dell’ intimità domestica e delle loro consuetudini.
La vicenda ha luogo dopo diversi anni da quel particolare momento.
Giuseppe, il primogenito, medico, affermato ricercatore, riceve dalle mani di sua madre il diario che suo fratello Giulio ha tenuto durante gli anni terribili della loro crisi familiare.
Il segreto in esso custodito viene così lasciato “in dono “ al figlio maggiore perché possa farne tesoro per la sua vita.
Giulio, non c’è più; da tanto…Da allora.
Di lui, della sua voglia di vivere soppiantata dal dolore, della sua rabbia, della sua fragilità, rimangono solo quelle pagine, protette per anni.
Giuseppe accoglie quel dolore, lo fa suo. Si dispera per non aver saputo comprendere la gravità del disagio di Giulio; il disagio di chi si sente isolato per il colore della sua pelle, miscela della bruna carnagione di sua madre, giunta dal Perù per incontrare un marito trovato per corrispondenza, e della rosea pelle di suo padre, l’uomo che l’aveva scelta guardando una foto. Il disagio di chi si sente confuso da una scala di valori rovesciata dove il rispetto, la responsabilità, la coerenza con i propri ideali e persino la gentilezza sono svilite, denigrate e rigettate addosso come un’infamia da cui difendersi.
È un testo toccante e l’emozione che investe chi assiste allo spettacolo inchioda i presenti che accolgono il finale quasi sospesi, incantati. Gli applausi scrosciano e con essi ognuno ritorna a se stesso. Qualcuno, commosso, ripercorre momenti della sua vita, lascia andare antichi ricordi, ringrazia per non aver mai sentito addosso il peso di un disagio così opprimente.
Giunge il momento dei saluti; gli attori tornano in scena per ringraziare.
Il pubblico si alza in piedi e accoglie la madre, fiera ed elegante, quasi irrigidita dal peso del suo dolore, interpretata da Gloria De Arcangelis; il giovane Giulio, nella persona di Alessandro Anglani, commovente nella sua dolce voglia di vivere a dispetto di ogni offesa, insulto, umiliazione. I due si fanno da parte e lasciano la scena a lui: Michele Lattanzio, emozionato interprete di Giuseppe, il fratello maggiore. Colui che resta a sostenere il peso dell’assenza.
Colui che ha saputo tornare a se stesso.
Con loro, Carlo Dilonardo, per la regia; Paola Kork, per le scene e i costumi; Pino Dimichele, per le luci; Barbara Palumbo, assistente alla regia.
Lo spettacolo è finito. Ora si ricomincia, con una nuova prospettiva. Portare questa storia nelle scuole, a dare forza ai giovani, portarla ovunque perché diffonda il messaggio di amore per la Vita e instilli la pazienza di saper aspettare se stessi.