«L’Oriente vuol dire cultura in quanto ricerca dell’io pensante»
(Tiziano Terzani)
Questa è una storia breve, ma come ogni storia che vede protagonista un ragazzino, intensa.
Erano giorni che quel personaggio continuava a chiedere a casa di poter avere dei piatti colorati da rompere e aveva le idee ben chiare: dovevano essere rossi, gialli e azzurri. I suoi adulti un po’ lo avevano preso sottogamba quando avevano chiesto la ragione di una richiesta così strana e specifica: naturalmente era facile, figuriamoci se bipedi cresciuti avrebbero potuto pensare alle evidenze. Semplicemente il bambino aveva da fare un compito a casa del quale aveva riferito molto poco: doveva eseguire un mosaico. Punto. Nulla in più era dato sapere.
I giorni erano trascorsi, della richiesta si era persa traccia, fino alla telefonata in cui il bambino, perentorio, aveva detto alla mamma che i piatti gli sarebbero necessariamente serviti quel pomeriggio, poiché il mosaico avrebbe dovuto essere consegnato l’indomani mattina.
Panico! Quando un piccolo bipede inizia a formulare frasi con tempi indifferibili, se si possiede un minimo di raziocinio, si sa anche che potrebbe scatenarsi l’Apocalisse. Ergo… i piatti furono trovati in un posto molto simile alle vecchie ed affascinanti soffitte dei film: c’erano ceramiche e bicchieri sufficienti per riprodurre almeno tre opere di Rupnik, nessuno aveva nemmeno memoria di tanto materiale.
Allora, la malcapitata genitrice propose il suo aiuto al figlio, il quale detestava l’idea stessa dell’aiuto non richiesto: doveva fare da sé, era per questo che dava sempre poche spiegazioni. Aveva, infatti, imparato che in casa sua appena si diceva mezza parola in più, inevitabilmente qualcuno cercava di proporre soluzioni più o meno rapide. Per la stessa ragione, dunque, il suo rifiuto fu netto! Andò in un luogo esterno ed appartato della casa, prese un martello, poggiò i piatti in un lavandino ed iniziò a fare ciò che credo ogni essere umano vorrebbe segretamente poter fare: i suoni onomatopeici che accompagnavano il rumore dei colpi e della ceramica che si frantumava, avrebbero dovuto essere registrati… la mamma sorrideva e il bambino diventata via via più soddisfatto!
Scaricava rabbia? Macché: costruiva la sua tavolozza. Mah… c’era da rimanere basiti.
Terminato il lavoro di distruzione, aveva pensato a come cancellare ogni traccia di quel passaggio che aveva reso il luogo un cantiere, ma aveva fretta di produrre e allora (il furbacchione!) aveva accettato di lasciare che la sua adulta di fiducia si intromettesse almeno in questo. Eppure non l’aveva lasciata: si era messo a collaborare procurando scopa, paletta, strofinacci e buste e poi era scomparso nella sua stanza.
Si sentivano suoni provenire dal vivavoce del cellulare, inclusa quella di un’altra adulta genitrice, che cercava invano di fargli aprire gli occhi e chiarirgli che la colla a stick non poteva tenere la ceramica incollata ad un foglio.
Lo si sentiva armeggiare, chiacchierare, perdere la pazienza, fino al suo spuntare: aveva lasciato un disastro su quella scrivania ed aveva il volto deluso… tanto impegno e tanta fatica per fare una schifezza. Era la colla il problema, nemmeno a dirlo.
L’espressione di sofferenza di un ragazzino che ci aveva provato con tutte le sue forze e aveva creduto nella riuscita, non era tollerabile per la mamma, non ancora almeno: dunque provò anche lei ad esortarlo, spingendolo verso una colla diversa e, per qualche grazia ricevuta, il ragazzino aveva scelto finalmente di ascoltare passando ai potenti mezzi di una roba di altra specie, una diavoleria appiccicosa potente e puzzolente come la UhUh dei nostri antichi tubetti gialli. Avrebbe potuto avere la pistola della colla a caldo, sua madre era stracolma di questi mezzi, era avvezza a creare qualsiasi cosa nel suo lavoro, ma no: lui non dava spiegazioni e non chiedeva, ce lo siamo già detti.
Passò altro tempo, questa volta avvolto dal più assoluto silenzio e d’improvviso eccolo spuntare con la sua Porta d’Oriente: il rosso del fuoco e del caldo, il giallo dei raggi del sole e l’azzurro del mare che sta oltre lo spazio.
– Amore, ma davvero a scuola ti hanno chiesto di farlo necessariamente con i cocci?
– No mamma, era consentito il cartoncino e anche la gomma eva. Questo esempio di materiale l’ho trovato proposto sul libro, quando ho studiato.
– Ah!
– Gli altri scelgono sempre le strade più semplici: un disegno stampato e poi riempito con i pezzettini di carta colorata. Me li hanno mandati, vedessi che bei lavori! Io però volevo fare qualcosa di più impegnativo, qualcosa di originale, qualcosa di diverso.
Colpita e affondata! La gomma eva c’era in quantità industriali, liscia e glitterata, con e senza adesivo incluso; quintali di risme di cartoncini colorati, Vinavil, candelette a caldo, qualsiasi cosa… avrebbe voluto dirgli sua madre.
Ma rimase muta.
Tempo addietro, suo figlio le aveva già detto, davanti ad una presa ed una spina forse non funzionanti e con la più assoluta spontaneità, che sarebbe stato meglio fallire che non tentare affatto (mentre provava a capire se era possibile caricare il suo cellulare da quella postazione)… meglio fallire, che non tentare. Da dove la prendeva tutta quella saggezza?
Dunque, ancora: avevo due strade, non volevo vincere facile con la più semplice. Volevo essere originale.
E niente, era partito da un martello, aveva rotto i piatti, aveva tentato e fallito, aveva ritentato e così portato tutti ad Oriente.
E poi ci chiediamo da dove nasca la nostra capacità di essere felici. È innata, è nei bambini, nei ragazzini… e dunque in ognuno di noi.
Toccherebbe andare a ripescarla: probabilmente nel mare dopo la porta rossa, oltre lo spazio, dove anche quel ragazzino potente non avrebbe forse mai trovato il talento artistico dell’opera d’arte, ma avrebbe imparato a non restare deluso, perché l’opera d’arte era lui stesso.
Il coraggio, la voglia, la determinazione e la formula magica eterna: devo provarci e devo essere originale. Posso essere felice!