«Non riesco a pensare a libertà più grande di quella che si palesa quando decidiamo di scegliere cosa fare con il tempo che ci è stato concesso»

(Eich)

Quella mattina si era messa in coda a tutte le ultime mattine di sveglia anticipata e non voluta: gli occhi si erano aperti prima dell’alba, il corpo si era trattenuto sotto le lenzuola giusto il tempo di percepire l’inutilità della stasi, il caffè era finito in tazza mentre ancora era buio e fuori dalla finestra riecheggiavano i versi di gatti evidentemente in calore.

Non aveva pensieri fissi e specifici, niente di tutto quello che normalmente sarebbe servito per togliere il sonno e poteva dirsi apparentemente tranquilla, anche riposata: quasi non le dispiaceva poter recuperare quelle ore del mattino che, era risaputo, avevano l’oro in bocca.

Lei, avvezza a preparare tutto quanto le sarebbe servito durante il giorno, la sera prima, si era quasi abituata a questa nuova abitudine del ritmo sonno-veglia e aveva preso a sistemare le sue cose in attesa dell’alba: colazione, documenti, borsa, vestiti. Di mattina presto, aveva scoperto, c’era tempo per tutto, in quella strana dilatazione del tempo che pareva essere triplicato e totalmente dissociato dall’effettivo movimento delle lancette.

Certo, sapeva di non poter fare davvero affidamento su questi ritmi; non appartenevano alla sua natura e dovevano essere dettati da qualcosa di cui non aveva netta percezione e che, quindi, non avrebbe potuto controllare qualora fosse diventato necessario.

Ogni sera in cui crollava senza aver messo in ordine ciò che avrebbe messo in ordine, pensava che stava giocando alla roulette russa: se l’indomani fosse tornata in sé e avesse dovuto aspettare il suono insopportabile della sveglia per aprire gli occhi e alzarsi a fatica? Così fosse stato, dove avrebbe trovato il tempo per partire nel modo giusto?

Non era arrivato ancora il momento di rispondere, poiché era ancora il tempo di giocare a crollare infischiandosene di tutto e tornare in vita in tempo utile.

Sembrava essere il modo automatico della biologia di tradurre, in pratica, tutto quanto era molto meno empirico: le tabelle di marcia, la vita incasellata in precisi step già stabiliti, l’ordine irrinunciabile delle cose, le regole, le figure geometriche perfette del sistema.

Probabilmente era solo fisiologicamente stanca di quell’elenco a cui non aveva certo disdegnato di mostrare rispetto per un tempo tanto lungo, quanto indecifrabile. Forse, stava solo ed involontariamente approfittando di una strana forma di libertà che, almeno, poteva tenerla lontana dal dovere auto-imposto. Una libertà che stava nelle piccole cose e che stentava a riconoscere, tanto che cercava di convincersi di avere perso per strada le ragioni di una non meglio specificata ansia.

La verità, però, era che in quel momento non aveva ansie e stava soltanto e finalmente evitando di vivere in perenne stato di tensione: non le serviva sapere di aver fatto tutto in modo impeccabile la sera prima, per portarle a termine in modo comunque impeccabile il giorno dopo.

Era incredibile. Sapeva farlo.

Incredibile come la traduzione di quello stato di cose in termini ben più alti, che aveva trovato riportata su un foglio ingiallito dagli anni, conservato nel cassetto dei calzini spaiati, in attesa di ritrovare i fratelli dispersi:

Io non ti do il mio amore come fanno

normalmente, in uno scrigno freddo

dargento e perle, né ricco di gemme

rosse e turchesi, chiuso, senza chiave;

 

né in un nodo, e nemmeno in un anello

lavorato alla moda, con la scritta

semper fidelis, dove si nasconde

uninsidia che ottenebra il cervello.

 

LAmore a mano aperta, questo solo,

senza diademi, chiaro, inoffensivo:

come se ti portassi in un cappello

 

primule smosse, o mele nella gonna,

e ti chiamassi al modo dei bambini:

– Guarda che cosho qui! – Tutto per te –

(Edna St. Vincent Millay)

Infinito potere della mente umana. Albe, caffè, abiti, orologi, tabelle e calzini. Tutto, tutto portava lì, alla forma aulica ed universale di qualsiasi giornata degna del suo nome: l’Amore.


FontePhoto by Natalie Grainger on Unsplash
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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.