“Un omicidio fa un cattivo, milioni di omicidi fanno un eroe. I numeri santificano”

(Charlie Chaplin,  da “Monsieur Verdoux”)

“Se il governo volesse mettere un microchip nel tuo collo, ameresti ancora il tuo Paese? La guerra continuerà  ancora, e,  se non  desideri essere sfidato, vattene ora”

(Prince, The war)

Nino Haratischwili è una giovane scrittrice georgiana, che vive in Germania e scrive i suoi bei romanzi in tedesco (lo faceva anche il Grande Praghese Kafka), il cui romanzo d’esordio, nel 2020, L’OTTAVA VITA (PER BRILKA), raccontava, con una  lingua fluida, l’epopea della famiglia Jashi, dall’inizio del novecento fino alle rivolte libertarie post-sovietiche nella Georgia, terra dolce e mite, con una narrazione intensa e densa di vicende, di dolore e di morte. Stalin, georgiano e generalissimo dell’URSS, giocava, in quel romanzo,  una parte importante. Ma più di lui, citato solo una volta col suo cognome, e sempre indicato come “il piccolo grande uomo”, era Beria, il vero uomo del male della Russia staliniana, che condizionava la vita, soprattutto dei personaggi femminili, di quella bellissima storia, la cui umanità viveva le contraddizioni, gli amori, i viaggi, i tradimenti che sono propri delle persone in ogni tempo e in ogni luogo. Era una storia universale, raccontata in modo avvolgente, i cui personaggi, nel corso della lettura, sembravano animarsi sotto gli occhi del lettore.

La brava scrittrice georgiana, dopo aver pubblicato nel 2023, LA LUCE CHE MANCA, ancora dedicato alla Georgia post-sovietica e a quattro amici che hanno vissuto i dolori e le privazioni del passaggio da un’era all’altra,  ritorna con un grande romanzo che ha come sfondo la prima guerra cecena, gli orrori compiuti dall’esercito russo e le conseguenze, vent’anni dopo, su un gruppo di 4 uomini. Si tratta di LA GATTA E IL GENERALE.

Il crollo dell’URSS e la sua trasformazione è l’insistito teatro dei romanzi di questa scrittrice che sono un’affascinante narrazione dolorosa, e a tratti folle, di come la violenza danneggi e danni gli uomini. In questo romanzo è la guerra la vera protagonista della storia narrata.

Disgregatasi l’URSS, la Cecenia, parte della Federazione degli stati post-sovietici, dal 1994 al 1996 combatte contro la Russia, attraverso azioni di guerriglia, per conquistare l’indipendenza.

In questo contesto, la Haratischwili narra le vicende di quattro soldati russi,  ciascuno con la sua  personalità borderline, che si macchiano di un crimine orrendo, ovvero arrestano immotivatamente, anche se la tacciano di essere una terrorista (accusa abusata un po’ dappertutto!), seviziano, violentano e poi uccidono una giovane fanciulla cecena, Nura, e questo tutto in una notte. C’è anche un quinto soldato con loro, che, però, preferisce suicidarsi di fronte a questo orrore piuttosto che prenderne parte e diventarne complice.

Dopo vent’anni, i quattro uomini, costretti da uno di loro, che nel frattempo è diventato un ricco oligarca, si reincontrano per “giocare” alla roulette russa e fare dunque “giustizia”. Si tratta del generale del titolo che non ha mai perdonato agli altri tre la agghiacciante violenza scatenata quella notte, in cui, per sopravvivere, ha dovuto farsi coinvolgere, perdendo per sempre, in quella notte,  la sensibile innocenza e la dolcezza che facevano parte del suo carattere.

Il romanzo, ponderoso e assai analitico nelle descrizioni dei personaggi, del loro percorso umano, nello scandaglio delle loro personalità complesse e spesso sorprendenti, ha il suo culmine nella descrizione, al cardiopalmo, della notte dell’aberrante misfatto. Ogni gesto, ogni parola, ogni reazione di quella notte appaiono come un allucinante incubo reiterato, che, quando sembra star per finire, ricomincia con più  violenza, gratuita e brutale. I quattro soldati sono del tutto disumanizzati, privi di ogni controllo, incapaci di un minimo di empatia per la giovane donna, agnello sacrificale del loro olocausto.

Viene la palpitazione a leggere quelle pagine, lo sconforto, la nausea, pagine che sono strazianti e angoscianti, in cui la minuziosa descrizione, mai compiaciuta, getta il lettore nella più profonda prostrazione, lo rende empatico verso la vittima e lo fa riflettere sulla disumanità della guerra che è come un tritacarne che macina, tutti insieme, vittime e carnefici, ai primi togliendo la vita con dolore e agli altri l’umanità. Le vittime muoiono di sicuro. I carnefici, a meno che non abbiano già dentro di sé l’attitudine al male per il male, a cagionar dolore per il gusto di farlo, divengono come degli automi sopravvissuti fisicamente, ma morti dentro.

Ecco, la guerra è il male assoluto, di ogni tempo, della storia umana, perché scatena pulsioni aberranti, perché scortica, per sempre, il nostro strato di umanità e ci rende peggiori del peggiore degli animali, perché fa degli uomini macchine dell’odio verso altri uomini, (per non dire di quando le vittime sono le donne), senza che ci sia un perché.

Eppure le guerre non si fermano mai, ne scoppiano sempre di nuove e i popoli non si ribellano ai propri governanti che ce li conducono, come ad una festa. E invece la festa è solo di questi manipolatori e di chi sta dietro di loro che vuole la guerra, sulla pelle dei poveracci che vi vengono sacrificati in nome di una strana idea di nazionalismo, di onore, di virilità persino,  perché i potenti si arricchiscano sempre più e soddisfino la loro sete di potere.


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Nata a Corato, 62 anni fa, cresciuta a Ruvo di Puglia, mi sono laureata all’Università degli studi di Bari e ho insegnato per 38 anni scolastici tra le province di Milano e di Bari Diritto ed Economia Politica. Mi piacciono i libri, non da bibliofila, ma da lettrice, il cinema e la musica (Prince su tutti) e coltivo queste mie passioni costantemente. Amo la buona compagnia, ma anche un’operosa solitudine. Credo nei valori della libertà, dell’uguaglianza, del rispetto di tutte le persone e di tutte le opinioni. Detesto gli integralismi di ogni forma.

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