Tanto da far rimuovere nottetempo la sua statua
Il Parlamento è una delle attrazioni turistiche più note di Budapest, che nei giorni scorsi abbiamo potuto ammirare nelle prime tappe del Giro d’Italia. Eretto a cavallo tra il XIX e il XX, sul modello del Palazzo di Westminster, domina la sponda danubiana che si trova nel distretto di Pest, un tempo città indipendente. Fino a poco tempo fa, alle spalle dell’edificio, uno spiazzo perlopiù ombroso per gran parte della giornata, si trovava, a pochi metri dalla stazione della metro, un monumento, un piccolo ponte ferroso che attraversava una pozza d’acqua, sul quale si affacciava la statua di uomo occhialuto, col volto sereno e lungimirante, la riproduzione plastica di Imre Nagy, ex primo ministro, tra gli artefici della Rivoluzione del 1956, risoltasi tragicamente con l’invasione dei carri armati sovietici e con la condanna a morte del politico.
Nel 2018 il primo ministro Viktor Orban aveva ordinato nottetempo l’eliminazione del monumento che era stato eretto nel 1996, in occasione del centenario dalla nascita di Nagy. Per Orban, Nagy è un personaggio scomodo, uno dei peggiori comunisti che aveva lavorato con il KGB all’epoca di Stalin, per il quale l’estremo sacrificio non potrà mai cancellarne le “colpe” .
La Rivoluzione d’Ungheria scoppia in un anno cruciale per la storia contemporanea, quel 1956 durante il quale Kruschev denuncia i delitti di Stalin e Nasser nazionalizza il canale di Suez, con la conseguente tensione internazionale. Questa sommossa popolare era iniziata con una pacifica manifestazione in favore di alcuni studenti in Polonia, violentemente soppressa dal governo di Varsavia. Dall’ appoggio disinteressato per la questione polacca, si passò alla protesta contro il regime di Matyas Rakosi, con i lavoratori delle fabbriche, affiancati dagli intellettuali, che diedero vita a consigli operai e che costrinse il Partito a nominare come ministro Imre Nagy che accolse gran parte delle richieste del popolo. Passarono giorni di incertezza, di entusiasmo popolare e di trepidazione, mentre Mosca manteneva un silenzio inquietante, un temporeggiare sinistro in attesa dell’azione di forza, divenuto il marchio distintivo dell’interventismo russo nel corso degli anni: un’invasione di carri armati che causò la morte di civili, di soldati e del ministro della difesa Pal Maleter, arrestato il 1°novembre 1956, e che costringeva Nagy a rifugiarsi precipitosamente nell’ambasciata iugoslava, che si trovava in Piazza Degli Eroi. Questo non gli salvò la vita: dopo un contatto tra Krušev e Tito, il 22 novembre fu arrestato e successivamente giustiziato nel giugno 1958. La parabola di Nagy, rapida e dolorosa, un anticipo del “comunismo dal volto umano” di Praga e delle rivolte di Solidarność, aprì una falla nel mondo socialista e nell’opinione pubblica dei partiti comunisti occidentali.
Per comprendere la drammaticità della situazione è utile ricordare la testimonianza di Indro Montanelli, apparsa non molto tempo fa su “Sette”, rotocalco settimanale del Corriere della Sera: «Sabato pomeriggio alle 3 abbiamo lasciato Budapest, avvolta in una coltre di nebbia, di fame e di disperazione […].La gente per le strade ci guardava partire con occhi tristi, buttandoci baci e salutandoci con cenni di mano […]. Un lungo convoglio di trenta automobili che si snodò per i viali tra due ali di popolo che ci gridava: “Non partite!… Non lasciateci soli!… Restate almeno a guardare cosa ci fanno!”».
Del monumento di Nagy restano solo i fotogrammi della memoria e gli scatti delle macchine fotografiche. Inutili sono state le proteste dei democratici che considerano Nagy un eroe nazionale e che hanno alzato la voce per tante altre limitazioni imposte da Orban, che per buona pace dei suoi oppositori e della memoria storica del povero Nagy governerà per altri quattro anni. Per chi oggi fa visita al maestoso Parlamento, troverà alle sue spalle un monumento ai caduti del terrore rosso del 1919, instaurato da Bela Kun, un altro comunista. Uno dei peggiori.