Miglior film, miglior regista, migliore sceneggiatura originale, migliore fotografia, migliore scenografia, migliore colonna sonora, migliori effetti speciali, miglior sonoro, miglior montaggio sonoro, miglior trucco e acconciatura.

Bastano le dieci candidature agli Oscar per definire “1917”, il colossale di Sam Mendes che, dopo la statuetta ricevuta per “American Beauty” e le pirotecniche inquadrature di “Spectre” e “Skyfall”, si vede sulla prateria della Prima Guerra Mondiale con un capolavoro destinato a spiccare nel culto del genere cinematografico. La guerra raccontata in “1917” è la focalizzazione interna agli animi di George MacKay e Dean-Charles Chapman (il Tommen Baratheon de Il Trono di Spade), giovani attori che, come in un videogioco, calamitano la cinepresa con stoici piani di storia, un unicum vero solo a metà, per offrire allo spettatore la sensazione di non assistere ad alcuno stacco. In effetti, il film non include apparenti tagli perché, ma il dinamismo della pellicola non funziona, il contesto non appare autentico, i due soldati Schofield e Blake non sembrano veri.

Il direttore della fotografia, Roger Deakins, collaboratore storico dei Fratelli Coen, rinuncia alla computer grafica per prediligere gli esterni, compara le riprese con scienza e sapienza, nulla viene lasciato al caso, ci conduce in un’epoca che sembra non appartenente a quella dei fatti narrati ma che, in fondo, è custodita nella parte mnemonica dei nostri cuori. Evidente anche la scelta di astenersi da una musica assordante, il rumore di bombe di Thomas Newman alterna, perfettamente, una nota segreta e decisa, momenti cruciali di una miccia pronta ad esplodere per il collo di tartaruga la maleodorante fogna dell’umanità, laddove topi e ratti paiono ammaestrati dalla cattiveria bellica.

Il resto è da vedere. Il susseguirsi di uno scontro terreno, fluviale ed aereo, la bontà sopra tutto e tutti, il restare umani nonostante l’amor proprio, soccorrere un pilota avversario per ascoltare una coscienza che ti pugnala alle spalle o al costato per tornare agli albori del peccato originale, quel costato da cui Adamo generò Eva, figura femminile insostituibile, chioccia che ci riporta a noi stessi, alle nostre radici, come una bambina da proteggere sotto una campana di vetro, vagito desolato che rammenta una moglie e due figli lasciati a casa e che sprona a lottare ancora per non impantanarsi nel fango delle ambizioni totalitaristiche, il furgoncino militare su cui imbarcarsi per approdare da profughi d’odio nei torrenti di un fiume che trascina alla deriva della brutalità combattiva.

Scritta a quattro mani con la scozzese Krysty Wilson-Cairns, la sceneggiatura, pur creando una storia in tempo reale, segna un principio ed una conclusione, senza interrompere la cosiddetta shakespeariana “sospensione dell’incredulità“ del pubblico.

Il fil rouge che unisce il Generale Erinmore (Colin Firth), il Capitano Smith (Mark Strong) e il Colonnello MacKenzie (Benedict Cumberbatch) è la Linea Maginot che traccia l’invalicabile confine fra Bene e Male, relativismo di gesta eroiche che tangono superficialmente i contorni dell’eccidio.

Prodotto da Dreamworks Pictures e distribuito da 01 Distribution, “1917” si fregia delle eccellenze nel montaggio di Lee Smith, nella scenografia di Dennis Gassner, nei trucchi e costumi di Marzenna Fus-Mickiewicz , Sara Kramer, Daniel McGraw, David CrossmanJacqueline Durran.

“1917” è, in sostanza, un film storico destinato a scrivere la storia nel firmamento hollywoodiano.


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Iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Puglia, ho iniziato a raccontare avventure che abbattono le barriere della disabilità, muri che ci allontanano gli uni dagli altri, impedendoci di migrare verso un sogno profumato di accoglienza e umanità. Da Occidente ad Oriente, da Orban a Trump, prosa e poesia si uniscono in un messaggio di pace e, soprattutto, d'amore, quello che mi lega ai miei "25 lettori", alla mia famiglia, alla voglia di sentirmi libero pensatore in un mondo che non abbiamo scelto ma che tutti abbiamo il dovere di migliorare.