
La storia del campione di golf Josè de Jesus Rodriguez
Era il 1996 e, fortunatamente, Donald Trump non sedeva ancora nello Studio Ovale della Casa Bianca. Era il 1996 e, fortunatamente, il muro al confine con il Messico, che il tycoon intende costruire con i finanziamenti dei democratici e delle agenzie federali, bloccate dallo scellerato shutdown a cui ha sottoposto il Paese, non ha inibito l’american dream di Josè de Jesus Rodriguez: clandestino, allora, in cerca di fortuna, giocatore professionista di golf, oggi.
Impegnato, attualmente, nel PGA Tour, ha sfidato, ad inizio gennaio, alle Hawaii, avversari del calibro di Tiger Woods e Francesco Molinari. Ha lasciato, ventitré anni fa, Irapuato, città messicana sotto il controllo del cartello di Jalisco. I suoi sette fratelli assicurano che, nonostante la carnagione olivastra, le guance di Josè diventavano rosse dall’imbarazzo. Nasce da qui il suo soprannome “El Camaron”, ossia il gamberetto.
Anziché andare indietro, invece, la sua vita procede spedita e, dopo aver trovato un lavoro da inserviente in un piccolo circolo da golf, il Santa Margherita, decide di attraversare a nuoto il Rio Grande, eludendo la sicurezza dei cosiddetti border patrol, e arrivando, finalmente, negli Stati Uniti dove accetta una sistemazione temporanea a Fayetteville, in Arkansas.
Qui arrotonda con la manutenzione dello Stonebridge Meadows Golf Club, fin quando, nel 2006, giunge l’ora di tornare a casa, in Messico. Il Santa Margarita gli propone un posto da caddie e un milionario del settore farmaceutico, tale Alfonso Vallejo Esquivel, mette nelle mani di Josè un bastone chiedendogli di mostrargli come avrebbe colpito una pallina.
Il resto è storia. Josè acquisisce il diritto legale e morale di calpestare il green e di regolare il tee e, nel 2008, passa la Qualifyng School, trionfando, per la prima volta, a Puebla. Una vittoria dopo l’altra, una coppa dopo l’altra, Josè è oggi una persona nuova, un selfmade man che, però, non dimentica le proprie origini:
“Quando montavo i tetti con quel gruppo di operai ispanici appena arrivato negli States – racconta El Camaron – ho rispettato le regole del Paese che mi ospitava. Oggi voglio dare il buon esempio, voglio mostrare a chi segue il golf negli Stati Uniti che noi immigrati siamo brave persone, pronte a lavorare sodo”.