
Era il più grande di tutti, alla portata di tutti. Perché Jonah Lomu ha portato tutto il Mondo in meta, anche chi non sapeva un “haka” di rugby.
E, a sua volta, è stato il rugby a portare lui, adolescente ribelle, lontano dalle cattive compagnie, dalle risse nel quartiere povero di Auckland, dove si era trasferita, dalle Isole Tonga, la famiglia.
Con i problemi di alcol, il papà Senisi voleva che il figlio andasse a messa la domenica e non che giocasse a rugby. Per diciassette anni non si sono più parlati. A parlare è stata la sua tenacia dirompente, ma era anche veloce, velocissimo, e un allenatore lungimirante da ‘’avanti’’ lo spostò trequarti, ala. Mai visto un terremoto simile in campo.
Jonah Lomu: il debutto con la maglia degli All Blacks a 19 anni e 45 giorni, il più giovane di sempre, 63 match con la Nuova Zelanda e 37 mete. Devastante, come quella giocata, la migliore della storia. Coppa del Mondo ’95, semifinale contro l’Inghilterra, la cavalcata inarrestabile, avversari come birilli, impossibile fermarlo.
Lo ferma, invece, la malattia. Una rara forma di nefrite che nel 2004 lo costringe ad un trapianto di rene, donatogli da un amico deejay. Non basta. Nel 2011 si aggrava, avrebbe bisogno di un secondo trapianto, ma rifiuta corsie preferenziali, mettendosi in lista d’attesa e continuando a viaggiare, servendo il suo sport quasi come una missione.
Lomu è stato il primo rugbista dalla fama planetaria. Spot pubblicitari, ospitate, tutti lo volevano e lo conoscevano. Della sua immagine aveva bisogno ancora il rugby di oggi. A Londra, lo scorso settembre, affaticato, si è esibito nell’ultima haka della sua leggenda, la leggenda di un uomo con il coraggio di Davide e la forza di Golia, la leggenda di un gigante delicato.