
Volare restando fermi
Il romanzo di Sandro Veronesi “Il Colibrì” è diventato un film di Francesca Archibugi con Pierfrancesco Favino, bravo, ancora una volta, a cogliere l’essenza del personaggio letterario e trasformarlo in un punto di incontro più emozionale e carismatico. Il suo Marco Carrera è un uomo capace di resistere alle intemperie del tempo, la tempesta del cuore non agita le acque calme su cui naviga quella barchetta, è l’apoteosi del self control, la volontà di non muoversi durante la perdizione della pandemia.
A chi si approccia alla pellicola diventa inevitabile il confronto con il testo letterario, scrutarne la valida fedeltà è per lo spettatore compito prodromico alla valutazione generale che il film richiede, una trasposizione che trova aderenza nella sceneggiatura che la stessa Archibugi cura con Francesco Piccolo e Laura Paolucci, una fascinazione ed un incantesimo riscontrabili nella cadenza toscana di Favino che vola restando fermo nelle proprie certezze, come l’uccello che dà il titolo al film, un uomo che, pur piangendo, non perde il coraggio di andare avanti, un’esistenza, la sua, che sembra parafrasare “Veglia” di Giuseppe Ungaretti, una resistenza tutt’altro che passiva, l’intenzione virtuosa di dare e ricevere amore, doti che assapora e pratica solo chi ha vissuto in un universo femminile.
I continui salti temporali creano un flusso continuo di coscienza, rendendo anacronistici i ricordi ma anche togliendo a coloro che guardano il gusto del colpo di scena, delle conseguenze funeste che derivano da gesti sbagliati. D’altra parte, però, si sottace sulla devastante nevrosi della moglie di Marco Carrera, Marina, sulla depressione di sua sorella Irene e sull’ambiguità di Laura Lattes, qui più carnale rispetto all’evanescenza del libro.
Nanni Moretti accompagna il protagonista nei meandri della propria testa, luogo in cui prevale la gioia di aver messo gli altri sempre davanti a sé.