Non c’è solo la Catalogna in Europa a chiedere l’indipendenza dallo stato di cui fa parte. Ecco una panoramica dei più grossi movimenti indipendentisti del nostro continente.

A raggrupparli tutti esiste l’European Free Alliance, il partito europeo che tiene insieme le istanze dei diversi partiti indipendentisti. Dal 1981, infatti, l’E.F.A. si  definisce la casa comune delle 45 minoranze sparse in 18 Nazioni del Vecchio Continente. Un attivismo pragmatico ed aleatorio al tempo stesso quello dell’Efa, “cittadini senza Stato” che lottano per la propria indipendenza, l’autonomia linguistica che si mescola a cause più alte, un modello di autodeterminazione opposto al concetto di villaggio globale, nella sua accezione più negativa. Sentirsi parte di una tradizione non significa, necessariamente, rinunciare ad integrarsi o ad accogliere le diversità, anzi, è proprio dalle differenze sociali che questi combattenti iniziano la loro battaglia, differenze da ratificare per non essere soli, monadi nell’indifferenza storico-culturale.

Fondato nel 1946, ad esempio, il Bayernpartei, il partito autonomista bavarese, vuole emancipare uno dei sedici Land tedeschi allo Stato Federale. La Baviera, infatti, rimasta indipendente fino al 1919, è, con dodici milioni di persone, la Regione più dinamica della Germania.

La lingua tedesca è la più parlata anche nel Sudtirolo, territorio alpino perso dall’Austria dopo la Prima Guerra Mondiale. I benefici, concessi dall’Italia nel 1972 per l’indipendenza della Provincia di Bolzano, non hanno fermato gruppi di estremisti che, solo nel 2013, hanno deposto le armi indicendo un referendum indipendentista che ha raccolto oltre il 90% dei consensi.

La Valle d’Aosta, invece, attraverso  l’Autonomie Libertè Partecipation Ecologie (ALPE) ricevette, nel 1948, dall’Assemblea Costituente Italiana, uno statuto speciale in una Regione fondamentale per l’industria turistica del Belpaese.

Turismo che sembra crescere in maniera esponenziale in Corsica, zona governata dai genovesi fino a metà Settecento, fino a quando, cioè, la Regione non fu annessa alla Francia che, nel 1982, ne predispose l’amministrazione sotto l’egida di Ajaccio. A partire dal 1 gennaio 2018, però, la cosiddetta “Collettività di Corsica” redigerà un documento che stabilirà un esecutivo a livello locale.

Leggi e apparati distinti dal Regno Unito li annovera lo Scottish National Party, fondato nel 1934 e promotore di campagne secessionistiche, alla Braveheart, insorte dopo il 1707. L’annosa questione della Brexit getta, però, i kilt gaelici in un clima di confusione da cui unionisti, e non, faticano a chiamarsi fuori.

Il caso più eclatante, dopo le pretese della Catalogna, riguarda i Paesi Baschi, riconosciuti comunità autonoma dalla Spagna che, però, si rifiuta di concedere loro l’indipendenza. Il movimento “Eusko Alkartasuna” rivendica, dalla metà del Novecento, diritti che l’organizzazione terroristica Euskadi Ta Askatasuna (ETA) ha cercato di far valere con attentati mortali terminati l’8 aprile 2017, grazie all’armistizio con il Governo centrale. Alla luce di quanto successo a Barcellona, il presidente basco, Inigo Urkullu, si è detto pronto a richiedere ufficialmente il divorzio da Madrid.

A questi paradigmi di libertà si aggiungono i lombardo-veneti del Nord Italia, gli slesiani in Polonia ed i bretoni in Francia. A creare un precedente, destinato a fare giurisprudenza, ci ha pensato il Quebec a cui, nel 1998, la Corte Suprema Canadese ha spiegato che l’indipendenza diventa legittima solo in una casistica raccolta in tre punti: quando persistono popoli dominati da regimi coloniali; quando un popolo è occupato da un Paese straniero; e quando viene impedito alle minoranze di accedere alle cariche dello Stato. Peculiarità che, al momento, obbligano le varie etnie europee ad abbandonare ogni velleità separatista.