Una provocazione: perché non possiamo dirci “femministi”…

Lo confesso, ho provato fastidio. Da uomo innamorato della donna, convinto assertore del valore sommo della femminilità e delle sue peculiarità affascinanti, creative e insostituibili, quelle parole hanno provocato in me un naturale rigetto. Mi riferisco all’auspicio formulato dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, durante la presentazione del libro di Aldo Cazzullo, Le donne erediteranno la terra, tenutasi a Montecitorio. “Anche gli uomini dovrebbero essere femministi. Dovremmo essere tutti femministi, uomini e donne, se per femminismo si intende una società in cui uomini e donne hanno gli stessi diritti. Tutti dobbiamo essere femministi, senza timore”. Questa l’affermazione “incriminata”.

Mi domando: occorre davvero essere femministi per rispettare, onorare, riconoscere e difendere il valore della persona? Se così fosse, si potrebbe anche essere maschilisti, se per maschilismo “…si intende una società in cui uomini e donne hanno gli stessi diritti”. Sono consapevole che ragioni etimologiche e storiche mi contraddicono. È vero infatti che nel corso dei secoli il termine “maschilismo” ha connotato la deprecabile tendenza del maschio a sopraffare la donna, a ritenersi “essere superiore”, costringendola e limitandola in diversi ambiti della vita sociale e professionale, giungendo perfino a valutarla insignificante fino al punto di arrogarsi il diritto di privarla della libertà, quando non della stessa vita. Ed è altrettanto vero che per “femminismo” si è inteso definire il sacrosanto moto di ribellione alla supremazia del maschio, contribuendo a ottenere risultati significativi – di fatto naturali e imprescindibili – sul piano del riconoscimento dei diritti delle donne, quanto e come degli uomini, in ogni campo della esperienza terrena.

Tuttavia, proprio perché questi due termini sono antinomici e inconciliabili, denotano atteggiamenti contrastanti e uno di essi è sorto, pur giustamente, in contrapposizione all’altro, decisamente inaccettabile, essi rivelano una componente conflittuale che occorre una volta per tutte eliminare. Non a caso alle parole della Boldrini hanno fatto eco quelle della ministra – o ministressa? – Boschi che ha banalmente chiosato sul titolo del libro, asserendo che avrebbe preferito un titolo diverso, ossia “conquisteranno la terra” invece di “erediteranno la terra” e, precisando: “…le donne la terra la conquisteranno, non la erediteranno da nessuno”. Sorvolando sull’evidente deriva di onnipotenza, alla ministra – che so credente e praticante – deve essere sfuggito l’accostamento con una delle beatitudini proclamate da Gesù Cristo, in cui l’eredità della terra costituisce il dono prezioso riconosciuto ai miti, ossia ai nonviolenti. Della serie: bisogna a tutti costi, sempre e in ogni occasione porre i distinguo, prendere le distanze.libro-cazzullo-laura-boldrini-maria-elena-boschi_24

Personalmente ritengo che il compito di quanti sono chiamati a governare e ad esprimere l’unità nazionale, debba essere sempre orientato a coagulare piuttosto che a separare, a unire invece che a dividere.

A modesto avviso di chi scrive, insistere nel definire “femminismo” tutto ciò che è buono e giusto, nel ribadire la necessità di coniugare al femminile termini e professioni generalmente espressi al maschile, rischia unicamente di acutizzare le fratture, oltre che suscitare facili ironie, così come quando ci si chiede se la guardia, l’elettricista o l’autista maschio bisognerà chiamarli guardio, elettricisto o autisto, fino ad arrivare all’imbarazzante definizione dell’architetto donna… No, non ci sto. Provo fastidio quando tutto si riduce ai termini e si perde di vista l’essenza, quando diventa ostinazione la tendenza a suscitare scalpore con frasi ad effetto e si fa fatica a tradurre in leggi inequivocabili e norme rigide la necessità di arginare drasticamente e definitivamente il triste e desolante fenomeno, sempre più crescente, della violenza sulle donne e del femminicidio o – come ha richiamato la stessa Boldrini – per promuovere la parità dei diritti delle donne nel mondo del lavoro.

“Vogliamo o no – si è chiesta la presidente della Camera – una società basata sul rispetto tra entrambi i generi? Se la vogliamo, dobbiamo adoperarci, dunque è naturale essere femministi”. Mi dispiace, ma non c’è alcuna equazione tra il desiderare una società basata sul rispetto tra entrambi i generi e l’essere – addirittura naturalmente – femministi. Proprio perché i generi sono diversi, non è per niente naturale essere femministi, come non lo è essere maschilisti, come potrebbe affermare qualcuno, volgendo sguardo cupo e mente contorta indietro alla preistoria.

È invece naturale, questo sì, essere persone e creature. È persona chiunque ha a cuore, riconosce e rispetta il valore, la dignità, i diritti e il destino di ogni creatura che passeggia su questa terra.

Non se l’abbia a male, presidente – o, se preferisce, presidentessa – se non vorrò essere “femminista”. Pur essendo io dalla parte delle donne, lo reputo anacronistico e sterile. Preferisco essere, con tutti i miei limiti, persona, esattamente al pari della donna. Solo così avrò la certezza di riconoscere ed essere riconosciuto “eguale” nella diversità, cercando – come scrive Danilo Dolci – “…d’essere franco all’altro come a sé”. Senza paura d’offesa ad esser definito tale, tantomeno con la stupida pretesa di essere chiamato “persono”.


Fonteit.wikipedia.org e formiche.net
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Ignazio Boi (Cagliari, 1961), sposato, tre figli, giornalista pubblicista, esperto di formazione e comunicazione, funzionario della Direzione Politiche Sociali dell’Assessorato della Sanità della Regione Sardegna. Si forma in ambiente cattolico, dalla parrocchia ai movimenti dei Gesuiti. Obiettore di coscienza, nel 1983 diviene Segretario Nazionale della Lega Missionaria Studenti, promuove l’educazione alla pace, alla mondialità e la cooperazione allo sviluppo, cura il mensile “Gentes” e collabora alla rivista delle Comunità di Vita Cristiana. Consigliere e Presidente di Circoscrizione del Centro Storico di Cagliari dal 1985 al 1995, favorisce la nascita in Sardegna dell’Ipsia, ONG delle Acli, del Forum del Terzo Settore e del Forum delle Associazioni Familiari. Dirigente delle Acli e di Gioventù Aclista, fonda il Centro Pace e Sviluppo e con l’ente Enaip Sardegna dal 1986 al 2007 dirige attività e progetti di formazione professionale per “fasce deboli”, coordina programmi formativi internazionali e scambi di allievi tra paesi europei. Dall’Area Formazione della ASL, nel 2009 è chiamato nello staff dell’Assessore del Lavoro, promuove le realtà dei sardi nel mondo, particolarmente in Australia e in Argentina. Nel 2000 è ordinato Diacono permanente, impegnato negli Uffici diocesani di Pastorale Sociale e Lavoro e delle Comunicazioni Sociali, animatore di incontri, catechesi e formazione in diversi ambiti ecclesiali.