Il film, questo, è Alessandro Borghi, un attore sbalorditivo, la camera abita in lui, poggia su di lui, sul suo fisico martoriato, martirizzato, entra ed esce dal suo dolore riproposto per il cinema. Il regno dello spettacolo potrebbe meritargli un premio, i potenti che non temono altri potenti scendere dal trono.

Prima di elencare i protagonisti e di proclamare una recensione, occorre ricostruire i fatti e raccogliere le prove e soprattutto essere guidati da osservatori, evitare forzature del meccanismo che separa il bene dal male, avvicinare agli estranei che siamo, spettatori, alla fondatezza empirica della verità. Il tempo però manca, ci è concessa poco più di un’ora.
Il film, questo, è Alessandro Borghi, un attore sbalorditivo, la camera abita in lui, poggia su di lui, sul suo fisico martoriato, martirizzato, entra ed esce dal suo dolore riproposto per il cinema. Il regno dello spettacolo potrebbe meritargli un premio, i potenti che non temono altri potenti scendere dal trono.
Max Tortora è il padre di Stefano, pacato, incerto, rassegnato, un tantino estraneo al contesto filmico, non si capisce se per inespressività recitativa o per fedeltà al personaggio che interpreta: unico bagliore di luce, le mani sul vetro dietro cui si trova il corpo del figlio senza vita, che cercano invano di carezzare.
Jasmine Trinca, solo una presenza, un nome importante, sopravvalutata, vive di una rendita espressiva nel film inservibile, non restituisce la forza della sorella di Stefano Cucchi cui i media ci hanno abituato negli anni. Spieghiamo: non basta essere lì, dentro una storia, la si deve avvalorare, confortare, umanizzare.
Cupo, pieno di una tristezza eccessiva, impegnato a mostrare il corpo di un povero giovane uomo prima contuso da un potere sproporzionato, da un ego poliziesco esasperato e contagioso poi lasciato agonizzante su di un letto come una croce, sino alla morte. Ma non doveva deve essere solo quel corpo tumefatto a distribuire vergogna e sgomento, a svegliare le coscienze, il film aveva il dovere di gridare con la giusta maturità di scrittura e regia che lo Stato assieme a chi lo rappresentava, non si voltava, anzi guardava e restava impassibile, colluso con certi affittuari di un merdaio inqualificabile.
È orribile quanto è stato, superficialmente, dolosamente omesso e non avrebbe dovuto scioccare solo una porta chiusa dietro cui si immagina un uomo picchiato per delle debolezze psicologiche, ma l’aula di un tribunale, il corridoio sociale di chi si è smarrito, un giudice che amministra e decide senza attribuire il giusto peso al vissuto impulsivo di chi ha dinanzi.
E la pochezza giuridica di un avvocato d’ufficio.
Un presunto amico pur di salvarsi dichiara ciò che gli viene estorto e il viso smarrito di Borghi nell’aula del Tribunale, quando apprende che chi era con lui in macchina al momento dell’arresto a condividere vita lo ha venduto da Giuda, è straordinario. Chi comprende e difende l’uomo che implora una via di fuga da una vita incerta e sbagliata?
Non ha avuto una distribuzione seria, poche sale ma è su Netflix. Agli uomini di buona volontà, con gli occhi e il cuore affamati, suggeriamo di vederlo perché ora è quanto di più intelligente ci sia nel cinema italiano.