Ancor più sottolineato dalla palma d’oro, come miglior attore protagonista, a Marcello Fonte

Il film” Dogman” di Matteo Garrone, il regista famoso per la realizzazione di opere cinematografiche quali L’Imbalsamatore e Gomorra, sta registrando un indiscusso ed innegabile successo, che eccezionalmente mette d’accordo pubblico e critica, soprattutto dopo che Marcello Fonte è stato insignito della palma d’oro, come miglior attore protagonista, durante il festival di Cannes. Toccanti, nella circostanza della premiazione, le parole rivolte al pubblico dall’attore: «Da piccolo quando ero a casa e, quando pioveva, la pioggia batteva sulla lamiera, mi sembrava di sentire degli applausi. Adesso quegli applausi sono i vostri».

Il lavoro trae spunto dal delitto del Canaro della Magliana, l’omicidio del criminale e pugile dilettante Giancarlo Ricci, (Simone nel film, magistralmente interpretato da Edoardo Pesce), avvenuto nel 1988 per mano di Pietro De Negri, detto “er canaro”, (Marcello nel film). Il caso, che sembrava definitivamente chiuso, in questi ultimi giorni si è imposto nuovamente all’attenzione di quanti si occupano di cronaca nera, in quanto la madre di Ricci ha chiesto la riapertura delle indagini: secondo lei, accanto al canaro, altri personaggi sono colpevoli del truce assassinio del figlio.

Tuttavia il macabro fatto di sangue ha offerto soltanto l’input alla narrazione del film. «Questa è una storia che poteva succedere a chiunque di noi, e per questo non volevamo cadere nel cliché del personaggio trasformato in un mostro», ha dichiarato il regista nel corso di un’intervista a “Vanity Fair”, raccontando come sia stato proprio l’incontro con Marcello Fonte la chiave di svolta di un progetto che era in cantiere da tempo. «L’incontro con lui ci ha allontanato in maniera naturale dal fatto di cronaca e ci ha portato in una dimensione più umana. La sua forza è di riuscire a trasmettere comunque umanità e dolcezza, e a non trasformarsi mai in mostro».

La vicenda è imperniata sul rapporto quasi simbiotico tra due personaggi, il tosacani Marcello e il bullo Simone, antitetici l’uno all’altro: quanto il primo è caratterialmente mite, padre attento ed amorevole per la figlia Alida, comprensivo e gentile nei confronti delle persone, legatissimo ai cani, che accudisce fino a condividere con qualcuna delle bestie i suoi pasti, fisicamente mingherlino, leggero ed agile come un acrobata; altrettanto il secondo è un energumeno violento, intellettivamente ottuso, quasi animalesco nelle sue manifestazioni, esasperante ed esasperato, sempre imbottito o alla ricerca di cocaina, la cui figura si staglia gigantesca in qualsiasi contesto operi. Il regista traduce la contrapposizione tra i due nella antinomia dello sguardo: buono, malinconico e dolente quello di Marcello, anche quando sorride nei momenti di tenerezza con Alida; bieco, cattivo e, al tempo stesso, pieno di paura quello di Simone.

Le coordinate spaziali evocano le periferie degradate e squallide di molte città italiane, omologate dall’imbarbarimento, con spazi desolati, strade sterrate, buche che, in concomitanza con la caduta della pioggia, si riempiono di acqua torbida e puzzolente, litorali immondi, disseminati da cumuli di rifiuti: in questo universo piattamente orizzontale ad elevarsi sono solo le strutture abusive, mai le persone. Non è un caso che il negozio/toilette canile di Marcello sia collocato tra un “compro oro” e la sala-videoteca di un biliardo, gli unici “servizi funzionanti” del quartiere, a conferma del nesso inscindibile e della saldatura tra l’abbrutimento umano e il degrado ambientale.

Il racconto inizia con la rappresentazione del ringhio feroce di un pitbull da combattimento e del paralizzante terrore speculare degli altri cani, rinchiusi nelle gabbie, emblematici delle dinamiche di sopraffazione e di sottomissione tra cui si dibattono gli abitanti del rione, compreso Marcello, che aiuta Simone fornendogli spesso la droga e coadiuvandolo nelle “riscossioni”, fino al momento in cui il mancato pugile decide di usare il suo negozio come base operativa per una rapina e ne provoca la carcerazione.

Gli equilibri nei loro rapporti saltano irrimediabilmente e il tosacani, vittima della prepotenza altrui, all’uscita dalla prigione, cerca di farsi giustizia da solo, diventando suo malgrado l’artefice di una vendetta feroce ai danni dell’ex amico/complice, che ha tradito la sua fiducia ed ha macchiato la sua reputazione agli occhi della gente.

La costruzione della storia è esente da tentazioni di spettacolarizzazione, non indulge alla volgarità dei talk-show ed evita accuratamente i particolari raccapriccianti della tortura, anzi evidenzia l’impegno, da parte del regista, a restituire a tutti i personaggi la dignità ferita, offesa e calpestata dalla condizione di abiezione e di miseria materiale e culturale.


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Sono Rosa Del Giudice, già docente di italiano e latino presso il Liceo Scientifico "R. Nuzzi" di Andria dal 1969/70 al 1998/99 e, ancor prima, docente di italiano e storia presso l'ITIS "Sen. Jannuzzi" di Andria. Attualmente sono la rappresentante legale del Centro di Orientamento "don Bosco", che dal 1994 è un'Agenzia Educativa molto presente sul territorio andriese in quanto si occupa di temi pedagogici ad ampio spettro, promuovendo ed organizzando, prioritariamente, attività in due ambiti: l'orientamento scolastico nelle ultime classi delle secondarie di 1° grado, finalizzato a ridurre il fenomeno della dispersione; la formazione dei docenti, che la L.107 su "La Buona Scuola" opportunamente considera come obbligatoria, permanente e strutturale. Non lesino il mio contributo all'interno di Associazioni che si battono per il perseguimento del bene comune ed il riconoscimento dei diritti a quanti vivono nelle periferie esistenziali del mondo.