Pelle nera, smartphone e cuffiette non significa perdere i diritti di ogni essere umano

Alcuni giorni fa un gruppo di cinquanta richiedenti protezione internazionale, ospiti di un centro di accoglienza allestito nell’ex mattatoio di Andria e gestito dalla Misericordia, ha deciso di manifestare in piazza Trieste e Trento davanti al palazzo comunale, per chiedere una maggior tutela dei loro diritti.

L’episodio ha infervorato i molteplici analisti (da bar) del fenomeno migratorio inducendoli a partorire ormai inflazionate dichiarazioni. A titolo esemplificativo: “Manifestano anche, eppure non fanno nulla dalla mattina alla sera pur avendo da mangiare e dove dormire”; o ancora “L’Italia è il paese dei balocchi, dove il popolo Italiano vive in miseria ed i migranti sono ben vestiti ed hanno smartphone all’ultimo grido” e infine come non citare la lapidaria massima: “Cacciamoli tutti!

Ma chi sono realmente questi “neri” armati di smartphone e cuffiette?

Avventurieri che lasciano il loro paese per cercare maggiori fortune o persone che, in un mondo globalizzato, decidono di fuggire dalla fame e dalla povertà, per cercare di costruirsi un futuro dignitoso? A voi la risposta.

Sì, vi possono essere anche soggetti, cresciuti in contesti fondamentalisti, decisi ad esportare con violenza la loro cultura disseminando terrore e distruzione in altre nazioni: ma si tratta di una piccolissima minoranza.

Dunque, tutti gli altri quali i diritti che rivendicano?

Giunti a questo punto risulta necessaria una breve premessa.

Una volta sbarcati sulle coste italiane, i migranti vengono dapprima foto-segnalati come ingressi irregolari e successivamente trasferiti nei diversi C.A.S. (Centri di Accoglienza Straordinaria) dislocati su tutto il territorio Italiano. I C.A.S. sono gestiti da cooperative, non immuni da grandi contraddizioni, che, a seconda delle direttive contenute in precisi e circostanziati bandi pubblici, percepiscono giornalmente una somma necessaria per ottemperare ai bisogni quotidiani ed essenziali di ogni richiedente. Tale somma è comprensiva del cosiddetto “pocket money”, elargito con cadenza giornaliera o comunque secondo le regole interne stabilite dall’ente gestore, necessario per permettere al richiedente protezione internazionale di soddisfare i personali bisogni quotidiani (si pensi alle comuni ricariche telefoniche).

Il richiedente una volta giunto nel C.A.S viene accompagnato da figure professionali, operanti nelle predette cooperative, in tutto l’iter che lo condurrà all’ottenimento del permesso di soggiorno. In particolare, dopo l’espletamento del foto-segnalamento per ingresso irregolare, ciascun richiedente viene nuovamente foto-segnalato in EURODAC. Successivamente si procede con la verbalizzazione, presso gli Uffici della Questura competente per territorio, del Modello C3: modello, quest’ultimo, nel quale sono contenute informazioni dettagliate e riguardanti la storia personale del richiedente (generalità, data di abbandono del paese d’origine, data di ingresso in Italia, ecc.). Unitamente al predetto modello C3 sarà consegnato ad ogni singolo richiedente un attestato nominativo riportante le generalità ed avente durata di sei mesi.

Alla verbalizzazione del modello C3 seguirà la convocazione presso la Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale: organo collegiale deputato, previa audizione di ogni singolo richiedente, a decidere in ordine alla concessione o meno del permesso di soggiorno.

Qualora l’organo collegiale in questione decida di rigettare la domanda di protezione internazionale, ogni singolo richiedente avrà la possibilità di fare ricorso dinnanzi al Tribunale Ordinario Civile, competente per territorio. I richiedenti protezione internazionale, infatti, esattamente come i cittadini Italiani, hanno la possibilità di tutelare i loro diritti in tutti e tre i gradi di giudizio.

Come si vede, si tratta di procedure molto lunghe, che in molti casi si prolungano per un lasso di tempo notevole. Ed in tutto questo tempo i migranti che fanno?

Frequentano corsi di lingua italiana o, più generalmente, percorsi che dovrebbero consentire loro di avviare una compiuta integrazione nel contesto ospitante.

Ora possiamo chiederci: perché la predetta manifestazione davanti al palazzo di città?

Sicuramente per svariate ragioni, alcune fondate altre meno, ma principalmente perché, da un lato, allo stato attuale molte di queste persone risultano prive di qualsiasi documento e, dall’altro, perché tanti richiedenti, pur essendo arrivati da molti mesi nel territorio italiano, non sono ancora stati convocati dalle commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale. Tali rallentamenti non sono addebitabili a qualsivoglia istituzione, ma solo e soltanto ad una notevole difficoltà, insita nell’attuale sistema dell’accoglienza, a fronteggiare i quotidiani e molteplici sbarchi.

Insomma, si tratta di manifestanti, o meglio esseri umani, che pur essendo fonte di guadagno per tanti si sentono abbandonati e senza futuro. La precarietà del futuro, la stessa che attanaglia la quotidianità di tanti giovani italiani, che annienta la razionalità fomentando, purtroppo, l’incontrollabile e a volte violenta istintività.

C’è chi auspica una corretta rivisitazione della normativa vigente in materia di accoglienza; c’è chi effettua una sterile caccia alle streghe individuando nei migranti la causa di ogni male; c’è qualcun altro invece che, con scaltrezza e astuzia, osserva comodamente la guerra tra italiani e neri “armati” di smartphone, meglio nota come guerra tra poveri, dando luogo ad un vero e proficuo business.

Restiamo umani, ma soprattutto manteniamo i nostri occhi vigili tenendo ben a mente il principio elaborato dai nostri Padri Costituenti: “La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali” (Art. 10, co. 2, della Costituzione Italiana).

 

 


FonteAndreia Colasuonno
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Una famiglia dalle sane radici, una laurea in Giurisprudenza all’Università di Bologna, con una tesi su “Il fenomeno mafioso in Puglia”, l’esperienza di tutti i giorni che ti porta a misurarti con piccole e grandi criticità ... e allora ti vien quasi spontaneo prendere una penna (anzi: una tastiera) e buttare giù i tuoi pensieri. In realtà, non è solo questo: è bisogno di cultura. Perché la cultura abbatte gli stereotipi, stimola la curiosità, permettere di interagire con persone diverse: dal clochard al professionista, dallo studente all’anziano saggio. Vivendo nel capoluogo emiliano ho inevitabilmente mutato il mio modo di osservare il contesto sociale nel quale vivo; si potrebbe dire che ho “aperto gli occhi”. L’occhio è fondamentale: osserva, dà la stura alla riflessione e questa laddove all’azione. “Occhio!!!” è semplicemente il titolo della rubrica che mi appresto a curare, affidandomi al benevolo, spero, giudizio dei lettori. Cercherò di raccontare le sensazioni che provo ogni qualvolta incontro, nella mia città, occhi felici o delusi, occhi pieni di speranza o meno, occhi che donano o ricevono aiuto; occhi di chi applica quotidianamente le regole e di chi si limita semplicemente a parlare delle stesse; occhi di chi si sporca le mani e di chi invece osserva da una comoda poltrona. Un Occhio libero che osserva senza filtri e pregiudizi…