«Why  must l sing “God Bless America” and not the rest of the world?»

Perché devo cantare “Dio benedica l’America” e non il resto del mondo?

(Prince da United States of Division)

«In una fase del genere, piuttosto che restare subalterni all’America anche quando ci bastona, sarebbe saggio cercare di aprire nuovi sbocchi commerciali nel mondo»

(Emiliano Brancaccio[1])

E alla fine, il 2 aprile 2025, il giorno dei dazi americani è arrivato!

Una sorta di apocalisse, attesa, forse, ma con il diffuso convincimento che probabilmente sarebbe accaduto qualcosa che l’avrebbe impedita, una specie di miracolo, un sussulto di resipiscenza da parte di Trump.

E invece, tetragono a qualunque incitamento alla prudenza, fiero e sdegnoso, Trump è andato fino in fondo. Dimostrando la debolezza sua e dell’economia americana!

Subito le Borse sono impazzite e hanno bruciato miliardi di dollari in poche ore.

“Catastrofe e cataclisma” è stato il coro unanime di quelli che ci capiscono, che mettono i “sentimenti” (sic!) delle Borse, questi moloch contemporanei, al di sopra di tutto, finanche della volontà popolare e del benessere dei cittadini.

Gli stessi che danno del matto a Trump, senza ricordare che all’estero usa così, cioè che si mantiene ciò che si promette in campagna elettorale, quando si vince un’elezione, anche se a noi italiani può sembrare strano (chiedere al nostro presidente del consiglio, tutto rigorosamente al maschile, Giorgia Meloni).

Questo allarme generale, però, ha fatto perdere in lucidità più d’uno.

L’ormai mitica Von der Leyen, presidente della commissione europea, mantenendo sul capo quell’elmetto da guerrafondaia d’elezione, che già calzava, mercè la guerra tra Russia e Ucraina, ha promesso ritorsioni e sfracelli.

La Meloni, che credeva di esentare l’Italia dalla gragnuola degli aumenti tariffari all’importazione degli Stati Uniti perché è amica di Trump (di quelle amicizie squilibrate e costantemente accondiscendenti, al di là di ogni ragionevole dignità), si è resa conto che Trump va dritto come un treno perché “America first”, senza guardare in faccia a nessuno.

E a poco è valsa, per far cambiare idea all’amministrazione americana, la facile previsione che il protezionismo potrebbe mettere in crisi ancor di più la primazia monetaria del dollaro, che già sconta l’emergere prepotente di altre economie concorrenti (leggi gli stati detti BRICS, ovvero Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica ed altri).

E allora, che fare? Come affrontare la buriana, per uscirne quanto prima, con pochi acciacchi?

Anzitutto, bisogna ricordare che irrigidirsi su posizioni senza margini di trattativa non è mai una cosa consigliabile. Si rischia di imboccare una strada senza ritorno.

L’atteggiamento più intelligente è quello di, anzitutto, capire le cause che hanno spinto gli USA ad adottare misure così drastiche e perentorie. Poi, di aprire un tavolo negoziale per prendere decisioni che rappresentino una mediazione delle posizioni di ciascuno per addivenire ad una transazione in cui ognuna delle parti in causa rinunci a qualcosa per ottenerne un’altra, magari più vantaggiosa. Si chiama diplomazia, ma, pare, in questi ultimi tempi, una parolaccia.

Il fatto è, quanto alle cause alla base della decisione di Trump di aumentare i dazi, che il saldo negativo della bilancia commerciale statunitense è giunto alla cifra record di 23 mila miliardi di dollari. Sicuramente questo livello di indebitamento, accumulatosi nel tempo gli USA non sono più in grado di reggerlo dopo che il dollaro, per quanto sia ancora la prevalente moneta per gli scambi, ha visto ridurre il suo ruolo a vantaggio delle divise monetarie dei paesi ad economia emergente. Per cui Trump ha pensato che era giunto il momento di una regolamentazione politica del commercio internazionale.

Per quanto riguarda l’Italia, poi, ricordiamo che gli USA sono il nostro terzo miglior partner commerciale che acquista, in particolare, prodotti alimentari quali olio extravergine d’oliva, formaggi, vino, pasta, conserve a base di pomodoro. E ricordiamo anche che il valore delle importazioni americane è circa due volte e mezzo quello italiano, nei rapporti reciproci.

Quanto poi alla via diplomatica, occorre che le parti in causa, ad esempio USA e UE, discutano come affrontare la questione. I paesi UE, Italia in specie, potrebbero incrementare le loro importazioni dagli USA, non certo di armi ed assimilati, ma di beni che migliorino la capacità produttiva delle nostre imprese (penso alla tecnologia) e il benessere delle famiglie.

Ma qui si apre un altro complicato discorso sul potere d’acquisto delle famiglie e  dell’imprese italiane che sciagurate e masochistiche politiche deliberatamente recessive hanno fortemente ridotto in questi anni senza che, non solo non ci fosse la necessità, ma addirittura contro ogni logica economica volta a garantire il benessere delle persone che dovrebbe essere uno dei pilastri e obiettivi delle politiche UE (art. 3, comma 1, del TUE) .

E poi c’è sempre la possibilità di rivolgersi alle economie emergenti (vi ricorda qualcosa la “via della seta”?).

La Cina, ad esempio, con cui molti accordi commerciali erano stati stipulati per poi divenire carta straccia perché non piacevano agli USA (amministrazione Biden, grazie Meloni!).

O la Russia, dopo aver eliminato le (auto)sanzioni che tanti danni hanno fatto a famiglie e imprese italiane.

Per tacere della necessità che l’Italia (e l’UE) comincino a sviluppare la crescita della produzione interna.

Quindi vie praticabili per uscire dall’impasse ci sono, basta volerle percorrere, senza far passare i dazi di Trump per l’Armageddon.

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[1] In Dazi, l’economista Brancaccio: “Servirà la politica: dazi causati dal debito estero statunitense”, intervista di Marco Palombi da Il Fatto quotidiano del 4 aprile 2025


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