Intervista allo scrittore Davide Rossi
Un libro vivace e torbidamente interessante. Potrebbe essere presentata così l’ultima opera narrativa di Davide Rossi, E alla fine c’è la vita (Apollo edizioni, 2018). Un plot che mescola cinema e letteratura, sprazzi di vita reale che conducono alla disillusione di un avvenire tormentato e incerto. A spiegarcelo è lo stesso autore:
Ciao, Davide. Quanta esperienza autobiografica c’è nelle estreme avventure universitarie, e non, di Marco, Mario, Marianna e Marica, ovvero i quattro protagonisti del tuo ultimo romanzo E alla fine c’è la vita?
Nel romanzo c’è molto poco di autobiografico. Sicuramente ho inserito alcuni elementi come la città, Pavia. I personaggi hanno acquisito alcune sfaccettature del mio carattere, credono nell’amicizia, nonostante dimori in loro una profonda apatia ed egoismo. Ho condiviso con loro il pessimismo verso il futuro, la paura dell’incertezza che si porta dietro, con quella domanda che ti ronza costantemente in testa “Che ne sarà di me?”. Qui finiscono gli aspetti in comune. Loro sono passivi alle avversità della vita, disillusi, svogliati, l’autodistruzione è una sorta di religione da professare quotidianamente. Le incertezze sono la loro forza, alimentano e giustificano il loro stile di vita, senza però salvarli dalla società.
Quella che racconti, nelle torbide ambientazioni pavesi, è una storia contaminata da sesso, droga e alcol. Le vicende intrecciate dei quattro ragazzi finiscono per svilire la speranza di un futuro soddisfacente, esaltando, invece, l’attuale ottudimento per menti offuscate dall’orgiastica traveggola del giudizio altrui. Credi che, oggigiorno, le nuove generazioni fatichino a seguire delle regole proprie?
Credo che oggi le nuove generazioni fatichino a darsi delle regole, e non solo per demerito proprio. La loro condizione di naufraghi in un mondo avaro di scialuppe di salvataggio è determinata dall’assenza di progetti che li riguarda. Le persone sono egoiste, troppo prese da se stesse per accorgersi della società che sta morendo, troppo ottuse per confrontare le loro idee con quelle delle altre. Accade allora che i ragazzi decidano, giustamente tra l’altro, di essere padroni delle loro sorti, senza però avere gli strumenti necessari per affrontare il mondo con la sua finta etica e il perbenismo interessato. Le esperienze, seppure estreme, servono a manifestare questa indipendenza, a ostentarla, ma la vita reale è un’altra, pronta a travolgere col suo carico di responsabilità tutto e tutti. Ci si adatta, come i personaggi del mio romanzo, conducendo un’esistenza dettata più dal conformismo che dalle proprie attitudini, schiacciati dalle regole della società.
La visione materialistica su cui è incentrato il tuo lavoro ricorda molto il burrone emozionale di Meno di zero e Le regole dell’attrazione, best sellers dello scrittore americano Bret Easton Ellis. In che misura la comunicazione moderna può rendere labile il fil rouge che unisce voglia di lottare e lassismo giovanile?
“Meno di zero” e “Le regole dell’attrazione” sono romanzi scritti circa trent’anni fa, eppure sono dannatamente attuali. Il mio romanzo li cita perché i ragazzi che popolano le università, piuttosto che i locali della movida, sono quelli, carichi di speranze, paure e voglia di fare. Le trasgressioni servono per evadere dalle problematiche che quotidianamente li investono. Dentro di loro, come dentro la mia generazione all’epoca, sono ricchi di contenuti e idee pronte a esplodere e a investire il mondo. Il problema è che il mondo sembra non accorgersene, anzi. La comunicazione, purtroppo, di quest’epoca ama porre l’accento sugli aspetti negativi, sugli atti sconsiderati di pochi per gettare fango sui tanti, che quotidianamente investono tempo e risorse per crearsi un futuro. A Pavia in molti si lamentano del chiasso serale, dell’eccessiva movida, del disagio degli abitanti. Nessuno parla però degli affitti esorbitanti che uno studente deve pagare per una stanza di pochi metri quadri in un appartamento e in generale dell’indotto che portano questi ragazzi per la città. Perché invece di sbraitare o indignarsi non si prova a COMUNICARE? Non con il web, per mezzo di slogan e motti, ma con un sano confronto di idee e opinioni. Mi rendo conto di avere una visione utopistica del mondo occidentale, ma in fondo, nelle viscere, una piccola speranza la nutro ancora verso questo nostro modo di vivere, fra arrabbiature da fake news e motti da regimi dittatoriali.
Secondo il filosofo tedesco Hegel “La verità è nell’intero”, ma, scomponendo le varie parti della società, che ruolo assumerebbe la Scuola nella crescita culturale e umana dei ragazzi?
La scuola ha perso, per colpa del popolo, una parte della funzione educativa che aveva. Gli insegnanti sono stati spogliati dalla loro autorità e incaricati, in molti casi, di assolvere ai compiti dei genitori, salvo poi essere ripresi da questi, anche in maniera violenta, quando svolgono il loro ruolo. In questa direzione ho accolto con entusiasmo la notizia sul vostro magazine della nascita di una scuola per genitori, che possa accompagnarli durante la crescita del figlio. La scuola in fondo è questo, una nave che ti trasporta da un porto all’altro, navigando nelle acque chete delle elementari, superando le difficoltà delle medie e sfidando le burrasche delle superiori. Un percorso che deve far accrescere la cultura nel ragazzo, ma anche fornire le armi per affrontare il mondo.
Volendo rassicurare i miei 25 lettori, possiamo dire, magari a cuor leggero, che alla fine di tutto c’è la vita?
Alla fine di qualsiasi esperienza, percorso, fase c’è la vita. Dura, difficile, imprevedibile, ma altrettanto bella e unica, che merita di essere onorata per quello che è, un dono unico.
Questo libro devo acquistarlo! Mi piace anche il titolo, che trasmette ottimismo dopo (immagino) pagine di pessimismo sul presente e futuro giovanile.