Coincidenze di “famiglia”: quella di Cesare e quella del boss.
All’alba del 15 marzo del 44 a.C. Cesare non si sentiva bene. Sua moglie Calpurnia aveva dei brutti presentimenti e lo supplicò di non andare in Senato. Cesare allora mandò Marco Antonio ad annullare la seduta, ma i congiurati a loro volta inviarono a convincerlo Decimo Bruto perché sapevano che di lui Cesare si fidava, lo aveva addirittura nominato nel suo testamento. E così alle 11 del mattino, Cesare si mise in cammino.
Una volta in Senato, i congiurati lo accerchiarono come in segno di saluto e il cesariano Cimbro Tillio iniziò subito a perorare una sua causa, Cesare fece un cenno come a dire ‘’ne parliamo dopo’’ e, a quel punto, Tillio lo afferrò per la toga e lo strattonò in avanti. Un altro cesariano, Publio Servilio Casca, lo pugnalò sulla spalla, Cesare reagì d’istinto, afferrò Casca e lo trafisse con uno stilo ma quando vide i pugnali attorniarlo da ogni parte non reagì più, un solo gesto, scelse di coprirsi il volto con la toga per morire con più dignità, e, alla ventitreesima pugnalata, capitolò a terra.
Giulio Cesare aveva 56 anni, più o meno la stessa età che ha “don” Vito Corleone quando cade vittima dell’agguato tesogli da Sollozzo il Turco, un caso sicuramente. Come un caso che nei dialoghi centrali de Il Padrino, soprattutto in quello bellissimo tra Frank Pentangeli e Tom Hagen, si parli proprio delle cospirazioni contro l’Imperatore nell’Antica Roma. Un caso che la sua prima riunione con il cast al completo, Francis Ford Coppola la faccia proprio alle Idi di Marzo 1971. Un caso che il suo film uscirà in sala esattamente il 15 marzo di un anno più tardi. È tutto un caso, o forse no.
Già, perché il successo al botteghino del più grande film di tutti i tempi non è frutto di accidentali e fortunate combinazioni, ma è il logico risultato di un lavoro intrapreso e portato avanti dalla Paramount, le cui casse, in quegli anni, si erano svuotate a causa di flop colossali. La trilogia de Il Padrino non è altro che la trasposizione cinematografica di un romanzo dell’italianissimo Mario Puzo. Lui, incallito giocatore d’azzardo, pensò bene di ottimizzare al meglio il suo vizio, osservò i gangster del casinò dietro casa e scrisse le vicende di un’esasperata epopea familiare destinata ad entrare nel mito. Grazie alla lungimiranza del produttore, Robert Evans, attori quali Al Pacino e Robert De Niro graffiarono, in maniera indelebile, le coscienze degli spettatori, trasformandosi nelle star più luminose del firmamento hollywoodiano. Loro due, di chiare origini italiane, contro gli stereotipi americani, una pugnalata alle convenzioni di un impero basato su celluloide e quattrini, un impero in grado di distruggere la superlativa interpretazione di Marlon Brando in Giulio Cesare, per dargli le redini di un’organizzazione criminale densa di onore e potere.
Onore e potere, parole ripetute non più di dieci volte in tutte le nove ore di proiezione. Spiccioli se si pensa al sostantivo che unisce tutti i personaggi. ‘’Famiglia’’, infatti, è la parola più ricorrente, il verso più utilizzato, il suono più cupo dopo quello della pistola. Per ben duecento volte, i Corleone citano la famiglia, forse perché proprio Bruto, figlioccio di Cesare, ordì il tradimento, o forse semplicemente perché, se vivevi negli Anni Settanta e un tuo amico ti invitava a vedere il Padrino, be’, allora era proprio un’offerta che non potevi rifiutare!