Novembre ha sancito il ritorno dei Cure, la storica band inglese di Robert Smith
C’è un sentimento comune che sta contagiando i grandi gruppi storici, la sensazione che questo nostro mondo stia andando incontro al suo epilogo e che ci sia bisogno di cantare questa profonda e inconsolabile inquietudine. Questo senso di pessimismo comune aveva contagiato con esiti differenti i Depeche Mode (Memento Mori) e i Blur (Ballad of Darren) che giusto l’anno scorso avevano fatto ritorno sulle scene. E i motivi per essere pessimisti sarebbero più di uno, dal pericolo scampato della pandemia al ritorno di guerre che insanguinano i confini bollenti, fino alle tematiche più personali ed eterne, come la morte o la depressione.
E la musica su queste cose sa essere un termometro affidabile.
Chi da sempre sa cantare di queste profonde angosce sono i Cure, che hanno fatto anche del dark e del gotico il loro cavallo di battaglia.
La band di Robert Smith è tornata sedici anni dopo il suo ultimo lavoro in studio, 4:13 Dreams. Sono nati nel periodo della new wave, nell’Inghilterra che aveva conosciuto qualche anno prima le dirompenti e ribelli schitarrate del punk e che cercava una maggiore introspezione con l’utilizzo dei sintetizzatori. Spesso definiti dark per via delle atmosfere decisamente cupe, hanno incarnato quella felicità chiamata malinconia di cui parlava Victor Hugo. L’esordio fu segnato da un frigorifero, da un’aspirapolvere e da una lampada, copertina iconica di Three Imaginary Boys. Ad accostare Smith e Lol Tolhurst, che lasciò il gruppo nel 1989 con strascichi velenosi, al gothic furono i successivi lavori, Faith e Pornography, quest’ultimo citato nella trilogia dark continuata poi con Disintegration e Bloodflowers. Per gran parte della critica e dei fan Disintegration rappresenta il punto più alto nella storia del gruppo, non solo dal punto di vista delle vendite, che collocarono il disco al terzo posto in UK, ma soprattutto dal punto di vista lirico e musicale che resero perfettamente lo stato di malessere e depressione che aveva colpito Smith a ridosso del compimento dei trent’anni, espresso nelle dodici tracce scritte di getto, alla fine non così sconfortanti e da emo, dalle quali furono estratti i singoli Lovesong, Lullaby, Fascination Street e Pictures of You, autentiche perle.
Il nuovo lavoro dei Cure in teoria si porrebbe in continuità con le atmosfere cupe di alcune canzoni del passato. Se in quelle occasioni, tuttavia, si cantava uno stato d’animo interiore, a cui il nuovo lavoro fa comunque riferimento, emerge invece nei testi un senso di desolazione più diffuso, globale, oseremo dire comunitario. Songs of a Lost World è stato festeggiato, si potrebbe dire, da un grandissimo concerto di tre ore che i Cure hanno tenuto il 31 ottobre a Londra, ben trentuno brani che hanno estasiato i presenti.
Non si sprecano mai nei loro spettacoli.
Il disco è stato anticipato dall’uscita dei due singoli Alone e A Fragile Thing.
Alone, che è anche la traccia che apre il disco, si rifà alla poesia di Ernest Dowson, di cui riportiamo una parte e che segna, come sottile filigrana, tutte le altre canzoni:
The fire is out, and spent the warmth thereof,
This is the end of every song man sings!
The golden wine is drunk, the dregs remain,
Bitter as wormwood and as salt as pain…
È la fine di ogni canzone che abbiamo cantato, si dice nelle prime battute, e la consapevolezza che la fine è prossima è forte in And Nothing is Forever e soprattutto in A Fragile Thing, nella quale il senso di drammatica compiutezza si realizza nei titoli di coda di un amore, nella fragilità di un legame che talvolta è caduco ed effimero, e se rotto, non può essere recuperato.
Non poteva mancare la preoccupazione per le sorti di un mondo funestato da guerre pericolose e dalla forte minaccia atomica, come si ricorda in Warsong, che è una realtà che può considerare anche l’asprezza delle relazioni interpersonali (For we are born to war) e che si riduce in affermazioni disperate (No way for us to find a way to peace).
Identità che vengono messe in discussione da ciò che si racconta in Drone: Nodrone, che nella sonorità ricorda il rock più incalzante di Burn e che anticipa l’intimistica I can Never Say Goodbye, forse tra i pezzi più belli dell’album, scritta per ricordare la morte del fratello di Robert, Richard, suonata per la prima volta dal vivo nel concerto di Cracovia del 10 ottobre 2022. Poi c’è la paura del futuro in All I ever am che con gli anni che passano diventa più pressante e che impone un non fermarsi (And all for fear of what I’ll find If I just stop), come se la vita quotidiana necessitasse di essere sempre in movimento, perché la staticità è sinonimo di morte. Endsong è il ricordo giovanile di una notte in giardino a fissare la luna, a possedere quelle stesse stelle che si sentivano proprie negli anni in cui l’uomo andava sulla luna. Quel ragazzo divenuto uomo ora si vede fuori, nell’oscurità a ragionare su come si possa invecchiare così velocemente. Il tema della perdita dei cari di Smith, la madre, il padre e suo fratello, scomparsi in breve tempo, ritorna anche in quest’ultimo pezzo (It’s all gone, it’s all gone Nothing left of all I loved). È la morte che prende tutto quelli che si sono amati.
Morte, vecchiaia e incertezza sono tematiche che i Cure hanno cantato nuovamente in un album introspettivo, dove le parti strumentali servono quasi a preparare alla riflessione, prima che la voce di Robert Smith, ancora fresca e cristallina nonostante i suoi sessantacinque anni, faccia il resto. Non sono rimasti delusi i fan, non ha deluso nemmeno me. È sicuramente tra i lavori più belli che hanno prodotto, che accosterei per intensità e profondità a Disintegration. È la prova che i grandi gruppi resistono al pop spendaccione e frivolo e che in giro c’è ancora della buona musica. Lo dicono pure in numeri: ad una settimana dal lancio del disco, Songs of a last world è primo nel Regno Unito.
Tracklist
- Alone
- And Nothing Is Forever
- A Fragile Thing
- Warsong
- Drone:Nodrone
- I Can Never Say Goodbye
- All I Ever Am
- Endsong