Cosa c’è alla base di tutta la storia? L’importanza delle scelte? Scegliere? Ma scegliere cosa?

Lanciare nel bel mezzo del periodo natalizio un lungometraggio inatteso, nuovo, non più ambientato in un ipotetico futuro ma in un passato ben definito, non un qualunque prodotto semplicemente ansiogeno come le serie passate, ma una vera propria esperienza interattiva, disturbante, a tratti folle: Black Mirror ha fatto un passo inaspettato …ma nel suo stile.

Netflix abbatte la parete tra spettatore e spettacolo creando quello che forse stavamo aspettando.

Ma Bandersnatch è per prima cosa questo:  un colpo di genio mediatico che ha fatto quello che ancora non era mai stato fatto nella tv streaming, un passo naturale e forse atteso, un gioco di strumenti nuovi e trame già conosciute; durante la visione della puntata non si può tornare indietro, non si può neanche utilizzare il cursore e  non sappiamo quanto effettivamente dura. Poi ci sono le scelte, fin dai primi minuti: un bivio costante con 10 secondi a disposizione per scegliere.

Black Mirror non vi chiede semplicemente una visione passiva per passare un pomeriggio natalizio, il film diventa un incasinatissimo gioco di scelte e di riflessioni sulla libertà, sull’arbitrio, sulle possibili potenzialità che noi stessi possiamo creare.

La trama è funzionale alla struttura narrativa: c’è un personaggio, una vittima delle nostre scelte e prigioniero dei nostri click e c’è la sua vita esattamente controllata come fosse un burattino dallo spettatore. Poi c’è la storia, il creatore vicino al crollo psicotico nel tentativo di creare e nel tentativo di ottenere il prodotto migliore.

Ma la vera storia qual è? Probabilmente la mia puntata è diversa tra le mille combinazioni possibili da quella di ciascuno spettatore Netflix, ed è questa che rende Bandersnatch così disturbante: ogni spettatore ha una sua storia e un finale (ci sono ben 5 finali alternativi) e una trama che procederà diversamente. Ogni scelta implica un’evoluzione diversa, il gioco interattivo diventa incalzante, un loop continuo di situazioni uguali e scelte differenti, opzioni identiche, ma possibilità diverse; il film diventa a tratti snervante, ripetitivo, un circolo vizioso in cui non è più chiaro il vero punto di partenza, ma soprattutto quale è quello di arrivo. La sensazione è che il regista ci stia indirizzando verso un determinato finale, ma in questo costante gioco di rincorse tra richieste e scelte al centro rimane la volontà dello spettatore.

Cosa c’è alla base di tutta la storia? L’importanza delle scelte? Scegliere? Ma scegliere cosa? Ed io spettatore come devo scegliere? Devo seguire un filo logico? Scelgo in modo causale? Do un senso alle mie scelte? …Posso non scegliere? Io ho provato a non scegliere e Netflix ha scelto per me: la scelta è indispensabile in questa storia. Un po’ come in Mr Nobody (per chi l’avesse visto) , in cui ad ogni bivio abbiamo la visione esplicita delle strade opposte che il personaggio deve intraprendere.

È un universo intero di scelte che non compiamo, delle strade che scegliamo di non intraprendere, dei gesti più elementari come mordersi un’unghia o buttare una tazza di the su un computer, ma che però portano alla follia; che senso ha scegliere la casetta musicale che Stephan deve comprare? È una scelta a evitare il compiersi di un destino? Avete cercato di evitare che Stephan assumesse delle droghe o che facesse il salto della morte? Sappiate che in realtà non cambiava molto.

La realtà è alterata, come dalle sostanze che i due personaggi decidono di assumere, come dalla follia che descrive lo scrittore cui Stephan si ispira, come dalle scelte del passato che non si possono cambiare e dai treni che si potevano anticipare o…ritardare.

Il mio finale cade nell’ipotesi del complotto, il vostro non lo so, la mia puntata è durata quasi due ore e per esasperazione nelle ultime scene ho scelto di saltare ai titoli di coda invece di tornare indietro e cercare un altro finale alla storia; a qualcun altro invece il film si è esaurito in 50 minuti. Le mie scelte forse anche illogiche saranno state insensate quanto quelle di qualcun altro o forse no: Bandersnatch ci rappresenta non solo la storia di Stephan, un po’ pazzo un po’ artista un po’ traumatizzato, ma anche le nostre normalissime vite, un po’ confusionarie un po’ caotiche un po’ indecise.

Questo è il senso della struttura interattiva, il film sarebbe potuto essere più coinvolgente, più incalzante, e per quanto la storia sia particolare a volte la visione della puntata diventa stancante, a tratti noiosa. Ma Bandersnatch non va (semplicemente) apprezzato per quello che vuole raccontare, ma per come lo racconta, che è ciò che da il senso alla storia stessa.

Ciò che distingue Black Mirror dall’immenso panorama di serie tv è la capacità di raccontare attraverso storie ansiogene quelli che sono e possono diventare i dilemmi esistenziali dell’epoca in cui viviamo. Questa volta non parla della società: parla di ogni singolo individuo dal più normale al più pazzo perché ci racconta come la nostra vita potrebbe o non potrebbe fare schifo, come il futuro ( che potrebbe essere questo presente) fugge al nostro arbitrio introducendo la paranoia del Controllo da parte di un sistema e ponendoci nuovamente di fronte all’angoscia dell’universo di possibili finali alternativi che ogni vicenda potrebbe o non potrebbe avere.

Ci sono scelte apparentemente banali come può esserlo nascondere un peluche al proprio figlio, altri inutili, come decidere se fare colazione con frosties o sugar puffs.

È un bivio continuo. Se il destino è fatto da quello che decidiamo, questa puntata cerca di dirci che le scelte che prendiamo forse non hanno senso, ed è questa illogicità che controlla il tempo.


1 COMMENTO

  1. Queste idee e interazioni funzionano meglio con il media videoludico. Netflix e simili piattaforme sono per me, la riduzione del potenziale della cinematografia, ovvero la scatola colorata che attrae e intrappola le potenzialità dell’arte cinematografica, soffocandone il linguaggio.

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