«L’assenza è, per colui che ama, la più sicura, la più efficace, la più viva, la più indistruttibile, la più fedele delle presenze»
(Marcel Proust)

«Ho una sensazione lieve, ma non riesco ad esprimerla. Sono come uno incapace di usare la moneta d’oro in suo possesso»: caro lettore, adorata lettrice, ti è mai capitato di immedesimarti in queste parole di Paul Cezanne?

A me sì. Più di una volta. Molto spesso, in verità.

Per carità, la mia breve, piccola esistenza probabilmente non appare agli occhi di questo mondo come una parabola del tutto insensata. Ho gli ingredienti sufficienti per una piccola storia personale che tuttavia non passerà alla storia: affetti saldi, un lavoro sudato e rispettato, non pochi amici che amo e mi amano. Sto bene. Sono felice. Mi capita pure di poter essere utile al prossimo. Non mi sembra affatto poco e sarei ingrato se lo pensassi. Il punto, dunque, non è questo.

La stessa cosa penso di un mio amico col quale, mentre giorni fa scalavamo insieme un 3000 metri, scambiavamo pensieri profondi. Profondi per le nostre esistenze, intendo. Pensieri che valgono per quel che sono: più per noi, che per gli altri.

Anche lui ha avuto una carriera più che rispettabile ed invidiata, una bella famiglia, una salda posizione economica, una salute di ferro (a 60 anni suonati, sale in montagna come uno stambecco, può tranquillamente andare in bici per 100 km con 2000 metri di dislivello o risalire, sci ai piedi, un canalone per poi lanciarsi giù su piste mai tracciate…). Nondimeno, anche lui, a volte, avverte il vuoto. Si sente incompiuto. Ritiene doveroso aspirare al meglio e si trova a chiedersi: «Cosa mi manca?».

La risposta la offre forse Leopardi, proprio colui che chi parla per stereotipi ritiene gobbo, brutto, sfigato e, naturalmente, pessimista.

Non sanno che si perdono. Dovrebbero frequentare lo Zibaldone, dovrebbero leggere rime aspre come quelle di A se stesso, dovrebbero conoscere tanti aneddoti poco noti della sua esistenza: forse si troverebbero a invidiare il suo amore per la vita. Forse capirebbero cosa egli intenda quando scrive: «La felicita non è che il compimento».

Certo, il compimento per Giacomo non è mai dato una volta per tutte. La sua e nostra sete, è di infinito, ma noi restiamo vasi d’argilla, sempre poco capienti, sempre insoddisfatti per ciò che ci può, troppo facilmente, colmare. Di qui l’indignazione, non il pessimismo, di Giacomo: che è quella di un innamorato della vita che dalla vita si sente tradito. Come dire: «Mi hai promesso tutto, tutto ti ho dato, e mi lasci con così poco?».

Questione di assenze e presenze. Ognuno di noi, prima o poi, impara a scoprire le une e le altre. Ciascuna si rivela a modo proprio.

Intanto il «deposito di oro puro», di cui scriveva Simone Weil, si fa sempre più vuoto, oppure più pesante, in un caso e nell’altro più difficile da custodire. Indefinito, come per «l’immensità» dell’Infinito leopardiano. Come il «mysterium tremendum et fascinans» di Rudolf Otto: una storia che si rivela a poco a poco, proprio nel mentre ci spaventa e affascina.

Di là della siepe che chiude la vista, quale che essa sia, non resta che levare lo sguardo: verso un orizzonte che sarà verde oppure bigio, indaco come il cielo più terso oppure coperto da nuvole minacciose. Si spera che, quanto meno, non sia angusto.

Anche perchè, per dirla con Elias Canetti: «Sono fatto di molte persone, della cui presenza in me non mi rendo assolutamente conto».

«…e il naufragar m’è dolce in questo mare».


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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...