Da ieri, 10 settembre, al 4 ottobre, la IV Edizione del Festival della Disperazione allieterà Andria con una serie di incontri tristemente piacevoli, ossimoro di un dinamico immobilismo di una ignorante cultura prodromica agli istinti della cura intellettuale che tutti noi dovremmo concederci, soprattutto nel post Covid e nel pre appuntamento elettorale. Il direttore artistico del Festival, Gigi Brandonisio, ci illustra gli intenti ideali della kermesse.
Ciao, Gigi. Da Direttore Artistico hai notato differenze logistico-organizzative nello slittamento del Festival della Disperazione da maggio a settembre/ottobre?
Innanzitutto niente titoli, il Festival della Disperazione è il frutto del lavoro collettivo dello splendido gruppo del Circolo dei Lettori di Andria a cui mi onoro di appartenere. Inoltre, Battiato direbbe “mandiamoli in pensione i direttori artistici, gli addetti alla cultura” per cui meglio rimanere nell’ombra. Scherzi a parte e venendo alla tua domanda, posso dirti che sicuramente è stato molto più complesso lavorare in estate per via dei tempi stretti e del fatto che ad agosto si ferma tutto. Personalmente preferisco la collocazione tradizionale del Festival a maggio.
Seppur da sempre il sentimento più letterario e letterato di tutti, quest’anno la disperazione trova sponda ideale nella tragedia Covid. Quanto è stato importante per la Città di Andria garantire continuità ad un contenitore culturale di cui, soprattutto alla vigilia delle Amministrative, in troppi si fanno sostenitori?
Per un Festival la continuità è tutto. Solo nella continuità si può immaginare un percorso di crescita e di miglioramento. Per questo, nonostante le vicissitudini legate all’epidemia da Covid-19, appena le normative lo hanno consentito abbiamo stretto i denti per provare a salvare l’edizione del 2020 in una versione inusuale per formula e collocazione. Confidiamo nel fatto che il pubblico possa apprezzare lo sforzo fatto. Per il resto non so quanto possa essere importante per la città di Andria, a dirti la verità credo che del settore artistico culturale si parli sempre troppo poco.
Perchè avete definito questa Quarta Edizione “il festival delle promesse non mantenute”?
Abbiamo voluto innanzitutto giocare con la sovrapposizione con l’appuntamento elettorale dove le promesse sono un classico intramontabile delle campagne elettorali. Inoltre il programma all’interno del programma ci sono diverse linee tematiche che ruotano attorno alle promesse non mantenute, soprattutto nei confronti dei più deboli. Ovviamente non manca una certa dose di autoironia perché i primi a non mantenere le promesse siamo noi, l’unico Festival che col passare degli anni aumenta le proprie difficoltà invece di diminuirle.
Negli incontri organizzati da Roberto Straniero, Paolo Berizzi e Giuseppe Civati, e grazie all’ironia de “Il Terzo Segreto di Satira”, sarà possibile offrire una visione differente degli ultimi in ambito sociale, costituzionale e politico?
Gli incontri che hai citato sono sicuramente tra quelli più centrati sul tema delle promesse non mantenute e sono tutti di notevole spessore anche nella loro versione ironica. Ognuno fornirà il proprio punto di vista sulle promesse non mantenute dalla politica nei confronti degli ultimi, della costituzione e del paese in generale.
La sezione “DisperArti” prevede l’installazione di Panchine Rosse, disposte da Roberta Fucci in vari punti della Città, un appuntamento con il portavoce nazionale di Amnesty International, Riccardo Noury, e la mostra “Com’eri vestita?”, contro lo stupro sulle donne. Disperazione e violenza sono antitetici o rischiano, a volte, di essere consequenziali?
Abbiamo voluto fortemente inserire un focus sulla violenza sulle donne nella programmazione del Festival ritenendolo un tema più che mai attuale (purtroppo!) e ovviamente disperante. Proveremo ad attirare l’attenzione su questo tema e a lasciare un segnale tangibile in città.
La Divina Commediola di Giobbe Covatta mette in evidenza diritti negati ai bambini. Seguendo le direttive della Convenzione Internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, c’è ancora la speranza di coltivare uguaglianza fra popoli ab imis, dalle fondamenta delle nuove generazioni?
Il tema dei diritti negati è uno dei filoni presenti nel Festival di quest’anno. Il tentativo è quello di riflettere assieme sulle questioni aperte e di lasciare una traccia su cui continuare a riflettere anche a Festival terminato. L’uguaglianza un obiettivo irrinunciabile non solo per le nuove generazioni.
Vittorio Continelli e la compagnia Kepler-452 con il suo spettacolo “Lapsus Urbano/Il primo giorno possibile” ci dimostreranno come la vecchia normalità fosse un problema. Qual è la difficoltà maggiore nella costruzione di una nuova quotidianità integrativa ed emancipativa?
Sono entrambi spettacoli che riflettono sulla condizione umana durante e dopo un disastro, un’epidemia. Personalmente sto ancora cercando una nuova dimensione del quotidiano e spero che questi appuntamenti possano aiutarci, in qualche modo, a ritrovarla.
Guardando al futuro: siamo rassegnati alla disperazione o siamo pronti ad abbozzare un roseo sorriso?
Ti rispondo con quello che diceva il poeta Raffaello Baldini: “Ma in fondo chi l’ha detto che dalla disperazione si può solo piangere?”.