
Come il Belpaese è divenuto tra i maggiori esportatori di armi ma il movimento pacifista è riuscito a far emergere gli stretti rapporti con la finanza
All’inizio degli anni novanta, nacque la notazione “banche armate’’, grazie alla diffusione del movimento pacifista italiano. Tale notazione riguarda gli istituti di credito italiani, imputati nella vendita a Paesi terzi di materiale bellico da parte di aziende nazionali.
Pur essendo l’Italia un Paese che annovera tra i suoi principi cardini costituzionali il ripudio della guerra, queste manovre commerciali non furono mai vietate. Solo con la legge n.185/90 e seguenti modifiche, si introdusse ope legische tali tipi di attività commerciali dovevano essere approvate annualmente dal Parlamento e che le vendite non dovevano riguardare Paesi in stato di guerra, sotto dittatura o con casi di violazione dei diritti umani.
Si giunse a questa particolare legislazione garantista perché a partire dalla fine degli anni settanta e durante la prima metà degli anni ottanta, avvenne l’exploit delle vendite di materiale di guerra italiano ed il Bel Paese, avendo pochissime restrizioni e controlli, poté imporsi commercialmente in molti Paesi, come Sudafrica, Libia, Iraq, Argentina e più in generale in tutti quei Paesi nei quali le altre potenze industriali occidentali, Stati Uniti in primis, preferivano non mostrarsi per ragioni di “opportunità politica’’.
Nel 1988 scoppiò lo scandalo che vide Saddam Hussein sganciare sul villaggio del Kurdistan iracheno di Halabja delle bombe chimiche, con la conseguente uccisione di più di cinquemila persone – molte le donne ed i bambini – e, alla base di tale scandalo, ci furono proprio gli affari bellici che l’Italia intratteneva con l’Iraq.
Questo provocò, in Italia, una forte reazione da parte dell’opinione pubblica, che costrinse il governo italiano nel 1990 a varare un decreto legge citato, che fu poi convertito dal Parlamento nella già citata legge n.185.
Per legge viene quindi annualmente pubblicato un elenco nel quale sono presenti le banche italiane che prestano soldi alle industrie belliche, grazie ai soldi dei risparmiatori che possiedono un conto corrente in una di esse e che hanno quindi il diritto di sapere come vengono impiegati i propri soldi, specie se destinati al mercato della morte.
Secondo dati forniti dal “Stockholm International Peace Research Institute” (SIPRI) e riportati dal sito Unimondo, i complessivi guadagni ottenuti da Germania, Francia, Regno Unito, Paesi Bassi, Spagna, Italia e Svezia superano i 39,6 miliardi di dollari e ricoprono più del 32,3% del commercio mondiale di armamenti, mentre gli Stati Uniti, tra il 2006 e 2010, hanno guadagnato circa 37 miliardi di dollari.
Dati che fanno riflettere sulle scelte dei Paesi così detti avanzati, che insieme alla cooperazione ed ai sovvenzionamenti verso i Paesi emergenti, non disdegnano di promuovere il commercio indiscriminato degli armamenti.