Quando non c’era internet, la sua saga dei Supereroi ha acceso l’immaginazione dei ragazzini degli Anni Ottanta
Se n’è andato a 95 anni, quando i suoi superpoteri sono finiti in cantina, avvolti da un’inerpicante ragnatela. Già, perché Stan Lee, pseudonimo di Stanley Martin Lieber, e creatore, fra gli altri, proprio delle ragnatele di Spider Man, era addirittura cinque anni più vecchio di Topolino, solo che, a differenza di quelle dei personaggi Disney, le sue storie non sono così tanto allegre e semplici. Ciò che Stan Lee ha descritto nei suoi fumetti, infatti, è l’evoluzione popolare di “supereroi con superpoteri”, una rappresentazione sociale che la sua azienda, la Marvel Comics, ha offerto a ragazzini degli Anni Ottanta privi di internet ma ricolmi di fantasiosa immaginazione.
Troppo pedanti i romanzi di William Faulkner, meglio le avventure di Peter Parker, l’Uomo Ragno che svolazza tra i grattacieli di New York, combattendo il crimine e inseguendo teppistelli e bulli in una propaganda pedagogica nemmeno poi così sottile.
Stan Lee è stato anche il primo autore e produttore a parlare apertamente di droga in un’America che, nel ’70, soffriva di tossicodipendenza. Grazie al cieco Matt Murdock (DareDevil), invece, ha portato alla luce il difficoltoso mondo della disabilità. Handicap estremizzato nelle diversità genetiche degli X-Men, mutanti costretti a vivere in una società conservatrice, bacchettona e perbenista.
In fondo, pensateci bene, cosa sono I Fantastici Quattro se non un attuale paradigma di famiglia allargata? L’incredibile Hulk e il suo doppio Dottor Banner non vi ricordano per caso il Dr. Jekyll e Mr. Hide di Stevenson? Dottor Destino non vi sembra una rivisitazione del Frankenstein di Mary Shelley? E che dire di Pantera Nera, primo eroe nero raccontato nell’epoca in cui Mohammad Alì e George Foreman si sfidano sul ring di Kinshasa?
Il successo al botteghino dei film ispirati ai suoi fumetti è conclamato anche da piccoli camei che lo stesso Lee si concedeva, presenza costante nel rivelare i problemi di una generazione che aspirava, come lui, ebreo di origini romene, a diventare immortale.
Sono cresciuto anch’io con i suoi eroi stilizzati. Storie che ogni bambino personalizzava e con ingenua ma molto fervida immaginazione faceva proprie. Appuntamenti fissi, incontri irrinunciabili, attese quasi adrenaliniche. No, attenzione, non parlo di playstation games, di afterhours quasi obbligatori, di risposte ai likes su fb o di consulti “l’ha letto e perché non risponde”…
Si, io c’ero. E sono contento di esserci stato. Questo il mio pensiero a Stan.