
Se ogni vita, per essere definita tale, deve essere vissuta attraverso un viaggio che non può prescindere da quello per conoscere se stessi, sono nel posto giusto con la persona giusta: Paolo Mazzarelli.
Attore, drammaturgo, regista.
Questo incontro è stato un incontro di parole e di pensieri. Un gioco nuovo per me. La disponibilità, l’ascolto e la sincerità, mi hanno sin da subito portata in un teatro vuoto, dopo uno spettacolo, dopo che qualcosa ha preso vita e si possono ascoltare anche i respiri del passato che lo ha abitato.
Ho visto in scena Paolo Mazzarelli al Teatro Argentina con, tra gli altri, Michele Sinisi per la prima di Hamlet; un progetto complesso – con esclusiva accezione positiva – regia di Andrea Baracco. Tre ore di teatro, con il piacere di esserci stata.
Il lavoro dell’attore mi incuriosisce da sempre non tanto per la relazione che ha con il personaggio ma quanto per la relazione che il personaggio ha con l’attore e con se stesso.
NOTE DI LETTURA
Per superare la mia esclusiva difficoltà relativa ad una distanza oculare e uditiva con Paolo Mazzarelli che mi porterebbe ad un “copia-incolla” di domande e risposte, ipotizzo un copione con fantasiose indicazioni di regia che, in quanto tali, nulla hanno a che fare con le reali intenzioni né emozioni di Paolo Mazzarelli né le stesse da lui a me trasmesse. Ciò che è accaduto realmente sarà sottolineato, per agevolare la lettura di chi non vorrà giocare con me.
Teatro vuoto, dopo la prima di Hamlet. Due persone, poco distanti, sono sedute in terza fila, al centro. Guardandoli di spalle, lei è a sinistra e lui a destra. Lei è intenta nella lettura di un libro che tiene stretto tra le mani, ammorbidisce la presa solo quando impugna la sua penna “Stabilo point 88 fine 0,4” lilla. Lui guarda il palcoscenico ormai vuoto con le braccia aperte, ognuna abbraccia la poltrona al suo fianco. Lei è una giovane scrittrice che ama raccontare il teatro, guai a pensar di lei come ad una critica. Perdonando il gioco di parole, è molto critica con i critici. Un abito lungo in maglina, viola-blu e una giacca in pelle nera come i suoi occhiali da vista, capelli ricci raccolti in modo scompigliato. Lui è un grande attore di teatro. Vestito interamente di nero. Ha un respiro presente, presente a se stesso. Appare rigido e fuori dal tempo. In linea, assolutamente in linea, con il teatro che lo accoglie. È presente a se stesso, e al mondo esterno, per la sua naturale capacità di avere “presenza scenica”, di quelli che basta vederli e percepisci che sono in grado di occupare il loro posto nel mondo in maniera consapevole. I loro sguardi non si incontrano mai. Lei attende il momento giusto per distoglierlo dai suoi pensieri; lui ogni tanto la guarda domandandosi chi è e cosa ci fa ancora lì. Complice l’ultima sottolineatura fatta, lei chiude il libro, un colpo di tosse per prendere coraggio e farsi notare.
Lei: (guarda il palcoscenico vuoto) è sempre emozionante restare in un teatro vuoto.
Lui: (silenzio)
Lei: (si gira verso di lui) Non trova?
Lui: (silenzio) dice a me? (si gira a guardare la platea)
Lei: (si gira a guardare la platea)
Lui: certo non può non essere a me. Sì è bello.
Lei: mi chiedevo, mentre leggevo questo libro (glielo mostra) di Callois sul gioco e gli uomini, se aveva voglia di fare un “gioco” con me.
Lui: (spostandosi con la spalla lontano da lei) un gioco?!
Lei: sì, non si allarmi. Le chiedo solo se posso farle qualche domanda, qualche domanda su di lei, insomma.
Lui: (si mette comodo sulla poltrona, la guarda, accenna un sorriso) sì.
Lei: si?
Lui: sì, può!
Lei: allora inizio (prende, sotto la sua poltrona, un quadernino con tanti ricci blu; è impacciata)
Lui: (la guarda e le sorride per rassicurarla)
Lei: e… (si schiarisce la voce) per iniziare parto dall’inizio. Come nasce un desiderio? Questo (guarda il palco), quello di fare l’attore.
Lui: mi hanno posto questa domanda più di una volta
Lei: mi dispiace
Lui: No, è che ogni volta ho dato una risposta diversa. Il che vuol dire che o sono schizofrenico, oppure ci sono varie ragioni differenti, tutte vere ma nessuna decisiva.
Lei: ne condividerebbe almeno una con me?
Lui: Quello che posso dire è che per me fare l’attore non è mai stato e non è – di per sé – un sogno, piuttosto è stato ed è un buon modo per continuare a seguire – e a cercare – un cammino. Ma se non scrivessi, e se non facessi spettacoli con la mia compagnia, e se non viaggiassi, non credo proprio che fare l’attore mi darebbe profonda soddisfazione. Quindi forse posso dire che nel mio caso fare l’attore è stato un buon modo per darmi il tempo di andare verso la consapevolezza di voler scrivere e creare teatro, potendo – nel frattempo che sbagliavo – divertirmi, incontrare persone straordinarie, e guadagnare da vivere.
Lei: Wow! È molto bella la descrizione della sua verità. Credo che ogni vita debba, o almeno dovrebbe, avere come base la conoscenza di se stessi e farlo con le formule migliori che carezzano la nostra anima è bellissimo. A proposito di verità, cosa pensa della voglia di certo teatro di portare in scena a tutti i costi la “verità”?
Lui: (si schiarisce la voce)
Lei: penso a spettacoli che portano direttamente in scena, nudi, i racconti degli attori, a chi lavora con i pazienti e a chi utilizza i pazienti per fare racconti. Io credo che la magistrale bravura degli attori sia l’unico strumento che possa portare la verità a teatro. Lei che ne pensa?
Lui: Ma sa, che cosa è questa “verità”? Il problema è che spesso a teatro si cade in un equivoco, per il quale dire “la verità” equivale a dire “il mio personale dolore” o “la mia personale esperienza di vita”. Ma quella non è “la verità”! Quello è solo il vissuto privato, che non interessa proprio a nessuno, in linea di massima. Certo che ogni attore può (e forse deve) attingere al suo vissuto in misura diversa a seconda della sua sensibilità, intelligenza, indole, ma di sicuro l’attore bravo – almeno per come la vedo io – è quello che non dimentica mai, neanche per un attimo, che sta fingendo, e contemporaneamente riesce a dare a un certo grado di profondità l’impressione di essere “vero”. L’importante è attingere al vissuto in modo segreto, e direi quasi inconsapevole, perché nel momento in cui lo si spiattella per quello che è, credendo che sia interessante solo perché è “vero” (cioè perché è vita vissuta) allora lì si esce dal teatro, e si entra in qualcosa che va verso la pornografia. A meno che non sei, che ne so, Hitler, o Frida Kahlo, o Maradona. Solo in casi del genere vedere o ascoltare il tuo vissuto su un palco mi interessa, perché è materia universale, e non più solo personale.
Lei: avevo paura di non essere stata chiara anche perché è un argomento che mi sta a cuore e allo stesso tempo mi fa molto arrabbiare. La sua risposta mi fa respirare e la ringrazio.
Lui: bene!
Lei: pensavo al fatto che ogni poltrona (accarezza quella che le sta avanti) è un palcoscenico. Lei quando è a teatro, come spettatore intendo, cosa si aspetta di vedere?
Lui: Guardi (si guarda intorno e posiziona comoda la sua schiena), l’importante è che succeda qualcosa. Se vado a teatro e perché voglio che mi succeda qualcosa. Posso essere cullato, divertito, emozionato, turbato, scioccato, fatto a pezzi, posso imparare qualcosa o posso mettere in dubbio qualcosa che pensavo di sapere e invece non sapevo. Purché succeda qualcosa. Qualsiasi cosa. Se poi, magari, quello che vedo mi rende un poco migliore, mi porta un po più vicino a quel me stesso più evoluto e più profondo che mi aspetta chissà dove, allora è buon teatro, credo.
Lei: sono qui perché ho visto Hamlet che la vede tra i protagonisti nelle vesti di Claudio. Cosa ha significato per lei questo progetto e questo personaggio?
Lui: Partiamo dal progetto. Oltre a Lino Musella (Amleto), mio socio (Compagnia MusellaMazzarelli) e amico fraterno, nel progetto c’erano altre persone con cui avevo voglia di lavorare. Andrea Baracco, Michele Sinisi, Roberta e Luca dei Santasangre, e tutti quelli che ho conoscuuto poi lavorando. L’idea di Andrea di unire più compagnie e usare l’Amleto come un campo di battaglia (e di gioco) in sé era già un’idea affascinante. E tale si è rivelata, sia nelle scoperte che nelle difficoltà. Amleto e Claudio poi sono una sorta di coppia, i due poli opposti e antagonisti della vicenda, il che mi ha permesso di stare in scena con Lino giocando con lui un nuovo gioco per noi, un gioco che ci permetteva di mettere a frutto la conoscenza e la familiarità che abbiamo raggiunto in anni di lavoro insieme, ma pure ci costringeva a fare passi in territori sconosciuti. Ho verso Claudio una profonda fascinazione. È un personaggio enorme e affascinante. Un fratricida, un traditore, un bugiardo, un uomo profondamente solo ma anche qualcuno che tende sinceramente al pentimento e che ha momenti di lucidità in cui confessa lo strazio di sentirsi un peccatore. Ha la cattiveria cieca di Riccardo III o Macbeth, ma anche una umanità e una fragilità sconosciuta agli altri villains Shakespeariani. Per un attore, un personaggio cosi è un regalo e insieme un viaggio nelle zone oscure dell’animo.
Lei: faccio una domanda a lei come Paolo e non come attore. Quanto è complesso avvicinarsi ad un regalo come questo?
Lui: Un personaggio del genere non è mai complesso. Complesso è interpretare personaggi mal scritti – cosa che con Shakespeare è ovviamente impossibile – oppure ruoli di servizio, marginali e incompiuti. In questo caso, l’autore dà all’attore tutte le carte, tutte le note, tutti i colori. Quindi sia Paolo che l’attore provano gioia e gratitudine di fronte al personaggio e al testo in questione. Poi, certo, affrontare Shakespeare vuol dire affrontare i fantasmi, i propri e quelli che ci girano attorno. Questa semmai, è la complessità. Anche se non vuoi quando lavori su Shakespeare ti succedono cose, ti si muovono pezzi, ti si svelano zone ignote. Questo è il regalo, ed è anche la complessità.
Lei: ogni gioco è tale perché ha uno scopo, ha delle regole, ha un inizio e una fine, allora concludo questa mia ricerca, con lei, chiedendole tre piccole cose: qual è stato il suo primo ruolo a teatro; il prossimo spettacolo che vorrebbe fare e/o scrivere e di quale spettacolo avrebbe voluto essere autore.
Lui: la prima volta che sono stato su un palco davanti a un pubblico pagante è stato con Pippo Delbono, nel suo Enrico V. Avevo 18 anni. Stavo bendato e muto. Non proprio un grosso ruolo. (sorride) Poi durante gli anni di accademia alla Paolo Grassi con alcuni compagni (Renata Ciaravino, Fabio Monti, Silvia Gallerano fra gli altri) abbiamo fondato una compagnia e realizzato vari spettacoli. È durata un paio d’anni. Il primo ruolo vero e proprio è stato Trigorin nel Gabbiano con la regia di Nekrosius. Il prossimo spettacolo che vorrei fare è quello cui sto effettivamente lavorando. È il nuovo spettacolo della Compagnia MusellaMazzarelli. Lo stiamo scrivendo e pensando io e Lino. Debutterà fra un anno, ed è una sfida ambiziosa: sono tre storie che si intrecciano fra loro e si svolgono tutte in un teatro abbandonato. Sedici ruoli, per sette attori. Di questi tempi, un kolossal! Quanto a una cosa che avrei voluto scrivere…è troppo facile dire Shakespeare, Eduardo, Moliere. Allora dico La solitudine nei campi di cotone, di B.M. Koltes. È un testo ossessione, per me e per tanti della mia generazione. Una porta che si apre sull’abisso, o su una luce.
Si spengono le luci e quel teatro, come tutti i teatri, accoglie i fantasmi dei personaggi che hanno preso vita sul palcoscenico fino a quel momento. Immagino un gran chiasso, tante conversazioni interessanti. I fantasmi si muovono in un ambiente d’ovatta, fatto di velluto e legno, che mantiene tutto al suo interno. Io attendo di poterci entrare, magari a luci spente.
Foto di Valeria Tomasulo