Come nasce il denaro? Quante volte ce lo siamo chiesti? Forse mai, forse qualche volta.
Come nasce il denaro? Una domanda per nulla scontata, la cui risposta è fondamentale per la comprensione di numerose teorie economiche. Anzi, è quasi una precondizione per esse. Per fare un paragone azzardato con la politica, con il termine “precondizione” non s’intende la diatriba tra la destra e la sinistra, ma quella tra la Repubblica e la Monarchia. S’intende proprio il contesto strutturale nel quale esplicare le politiche economiche.
Nel corso della storia, si sono scontrate due grandi scuole nel dibattito sulle Origini della Moneta: la Scuola Monetarista (o Metallista) e la Scuola Cartalista. La prima è quella mainstream, ad oggi sposata dalla maggior parte degli economisti neoclassici, secondo cui vale la teoria della “moneta-merce” come forza spontanea e facilitatrice del mercato; mentre la seconda è quella alternativa, per cui vale la teoria della “moneta-credito”, che individua nello Stato un ruolo primario nel processo di creazione e diffusione della moneta, teoria difesa dalla stragrande maggioranza degli storici, antropologi e da una buona fetta di economisti eterodossi. Io sarò onesto e perciò scoprirò subito le mie carte in tavola: non sono imparziale, come non lo è la Scienza di fronte ai no vax. E per indagare le origini, la lente che utilizzerò sarà dapprima quella storica, poi quella economica.
Nella prima scuola troviamo i contributi di Economisti come Carl Menger, Von Mises, Wright e così via. Il metallismo, o monetarismo, si fonda sul principio secondo cui il valore originario della moneta è dato, intrinsecamente, dal metallo con il quale essa viene coniata. Individua l’origine della moneta in un processo di mercato, nel quale gli individui scelgono un mezzo convenzionalmente accettato per minimizzare i loro costi di transazione (=tempo di ricerca dell’interessato al baratto, difficoltà di individuare i tassi di cambio tra differenti oggetti, ecc.). Tale oggetto, secondo i metallisti, è stato dunque identificato nei metalli preziosi, che hanno così permesso di abbattere gli altissimi costi del baratto. Questa narrazione implica che sia quindi stato il settore privato, spontaneamente, a muovere l’economia da quella di sussistenza ad un’economia monetaria e che l’autorità Statale non abbia rivestito alcuna funzione, o comunque ridottissima, in tale transizione. Tale teoria però non considera una lacuna fondamentale per i tempi a cui si riferisce: le difficoltà informative nell’utilizzare i metalli come mezzi di pagamento, che imponevano comunque altissimi costi di transazione: lunghi tempi per l’identificazione del metallo ed un presunto stabile rapporto fiduciario, che invece storicamente era molto precario a causa delle legislazioni incertissime dei primi sistemi di economie monetarie. Certamente, nel corso della storia è stato osservato l’utilizzo di metalli preziosi (in stato grezzo) come mezzo di pagamento per gli scambi, ma solo in alcuni casi molto particolari: per esempio nelle varie corse all’oro in California e Klondike. A proposito di tale evento, c’è un film di Charlie Chaplin che ritrae l’inquietudine di commercianti e baristi mentre pesano e controllano la polvere d’oro prima di accettare il pagamento, che ci suggerisce appunto che il pagamento in metalli preziosi grezzi aveva più punti in comune con il baratto che con un vero e proprio pagamento in denaro. Questa critica, nel dettaglio, è riscontrabile in una celebre opera di Charles Goodhart, noto esponente Cartalista, (“The two concept of money”). A tale obiezione i metallisti rispondono che la diffusione del metallo come mezzo di pagamento derivi dunque dal combinato disposto tra il suo valore intrinseco e la garanzia fiduciaria del processo di conio (un marchio), che avrebbe ridotto i costi di identificazione. Anche questa però, storicamente, è un’analisi precaria. Il conio è stato, nella stragrande maggioranza dei casi, un processo governativo, del settore pubblico. Nei casi in cui il conio è stato gestito dal settore privato, il governo ha quasi sempre sia fissato gli standard di rendita percepita, chiamata tassa di signoraggio, che comunque ha raccolto la maggior parte dei profitti disponibili. La concentrazione di conio sotto l’egida del governo, tuttavia, non è casuale e risponde a due ragioni essenziali:
- Innanzitutto, una coniazione richiede un immagazzinamento di metalli preziosi, agendo da calamita per furti opportunistici e violenza. Ciò richiede protezione e il protettore, (che esercita la forza necessaria a mantenere l’ordine nel sistema economico, storicamente appartenuta ai Regni) sarebbe stato quindi in grado di estrarre la maggior parte del profitto dal sistema.
- In secondo luogo, il valore intrinseco (qualità) dei metalli inclusi nella moneta coniata porta contraddizioni nel tempo. Il coniatore vorrebbe assicurare che la qualità della moneta sarà mantenuta per sempre, ma in pratica sarà sempre tentato di svilire la moneta alla ricerca di un rapido e immediato ritorno economico, ad esempio levando via via una quantità impercettibile di metallo prezioso da ciascuna moneta, così da riutilizzarlo per altre monete. Lo Stato, invece, può assumere rischi o mantenere impegni a più lunga scadenza.
Queste contraddizioni non hanno mai permesso che il processo di conio fosse tenuto solo da un privato.
La fine di una valuta o il suo declassamento (o svilimento) ha sempre coinciso con la fine di una potenza Statale, o meglio, di un Impero o di un Regno. Una coincidenza storica costante. Per utilizzare un esempio eloquente: quando i Barbari sconfissero l’Impero Romano, essi si appropriano del conio della valuta in quei territori. Inizialmente, mantennero un processo di conio simile a quello della moneta imperiale, a livello centrale, nonostante l’iniziale frammentazione degli Stati. Essi ritenevano che questo avrebbe reso più semplice l’accettazione di quella moneta (poiché simile) senza creare problemi al loro sistema monetario. Invece ciò provocò moltissimi squilibri e questo spinse alcune località al baratto in sostituzione o in affiancamento alla circolazione della moneta. Appena vi fu una rimozione definitiva anche del potere centrale e si stabilirono gli Stati sovrani, si diede luogo alla coniatura di diverse valute nei diversi Stati, accettate da tutti, che conferma la regola per cui alla frammentazione dei poteri politici degli Stati c’è una conseguente frammentazione delle valute. La delega del sistema ad un’autorità sovrana, confermò che il battere moneta è compito esclusivo dello Stato (o della sua Banca Centrale) e che viene accettato in quanto tale.
Per i metallisti, invece, una volta che il settore privato ha stabilito un equilibrio monetario e minimizzato i costi di transazione, non vi sarebbe rischio alcuno che si possa tornare a sistemi caratterizzati dal baratto. Il mercato è il mercato, a prescindere dallo Stato. Per i Cartalisti, abbiamo visto che non è così.
La scuola Cartalista, invece, viene supportata da Knapp, Mireaux e ¾ dei Post-Keynesiani, oltre che dalla quasi totalità degli storici. In questa scuola il fattore chiave del valore di una moneta è rintracciabile nel fatto che lo Stato, unico monopolista della forza e della valuta, ha anche il potere assoluto di imporre la tassazione nella valuta da esso coniata. E questo storicamente è riscontrabile nei Regni, negli Imperi e ancor di più nelle Colonie, dove possiamo osservare in tempi più recenti il processo con cui siano state monetizzate da valute straniere. Tramite tali poteri, lo Stato prima spende la sua valuta nell’economia che vuole monetizzare (in cambio di beni e servizi) e POI riscuote una parte della stessa attraverso le tasse. Gli individui, per ottenere tale valuta (con la quale saranno obbligati a pagare le tasse), vendono la propria forza lavoro ed offrono dunque in cambio beni e servizi maggiori di quelli necessari alla loro sussistenza. Quello che ancora non viene riscosso dalla tassazione, che dunque è rimasto al settore privato, è proprio il suo risparmio al netto delle tasse, che dunque potrà scambiarselo sotto forma di consumi (o investimenti) nelle transazioni e nei suoi scambi commerciali. E, nei libri contabili, viene registrato come deficit primario dal punto di vista del settore pubblico (resta una semplice differenza tra Imposte e Spesa pubblica) mentre nel settore privato viene registrato come surplus o “risparmio finanziario al netto delle imposte”. Questa spiegazione, oltre che ad essere storicamente verificata, ha perfettamente coerenza nel passaggio dalla moneta-merce (i metalli preziosi), alla moneta convertibile, alla moneta fiduciaria (o fiat). Quest’ultima, è ciò di cui tutti noi disponiamo nei nostri portafogli. Una moneta che non ha più un controvalore in oro, che non ha alcuna copertura reale, ma che resta solo una nota di credito che esprime un potere d’acquisto. Il Metallismo non offre alcuna spiegazione sulle origini di questo presunto sistema fideistico nel denaro a cui tutti crediamo (ma perché avremmo dovuto?), né spiega come entri la moneta all’interno del sistema economico. Non c’è alcuna convenzione socialmente accettata, non c’è alcun “sistema di credenze” che tiene in piedi la nostra economia. La valuta Fiat, scaturita da Bretton Woods, oggi viene accettata perché coperta dal potere della Governance di Stato, dal nostro sistema legislativo, e soprattutto dall’autorità sovrana di imporre le tasse denominate in tale valuta, altrimenti l’operatore economico evasore verrebbe escluso dal tessuto produttivo e commerciale (sanzioni amministrative o commerciali; in alcuni casi arresto; pignoramenti).
È questo che, anche inconsapevolmente, induce i privati ad accettare e a domandare la valuta di Stato, nel nostro caso Europea, e ad utilizzarla, storicamente prima come mezzo di pagamento delle imposte e poi come mezzi nelle transazioni nel mercato. Una volta messa in circolazione, poi, essa si moltiplica e si diffonde per via del meccanismo della riserva frazionaria, attuato dalle banche private. Ma questa è un’altra storia.