
Lunedi, ore 13.
Sono a letto, mi sento un po’ fiacca, debilitata. Recupero le forze e mi dirigo verso la finestra. Una bellissima giornata di sole. I panieri con le buste della spesa salgono su per i balconi. La signora che vende lo zabaione fresco canta il suo solito motivetto. I motorini si fanno largo tra i bimbi che escono da scuola.
Primo colpo.
Secondo colpo.
Mantieni la calma, sono spari, non sta succedendo ancora. Sarà caduto qualcosa.
Terzo colpo.
Quarto colpo.
Sento urla di bambino. Non resisto, questa volta è troppo. Mi affaccio.
Quinto colpo. Sesto.
Uomo a terra.
Macchina sfreccia.
Uomo portato dentro la sala giochi.
Saracinesca si chiude.
Donna del piano superiore butta secchio d’acqua a coprire il sangue.
Donna dal balcone urla.
Bambini allontanati.
Silenzio.
Trascorsi pochi minuti si affacciano tutti, fumano, parlottano tra di loro.
Le loro facce. Ho passato notti in bianco a spiegarmele. Vuote come maschere.
Urlo, mi dimeno, cado. La mia vicina, che è solita trattarmi come figlia, mi fissa in silenzio. La sua sigaretta la fuma il vento. Mi portano dentro.
Mezz’ora dopo.
Banda porta lo stendardo con la Madonna per la benedizione ai commercianti della strada.
Donna stende i panni.
Donna pulisce.
Donna fuma.
Uomini riprendono la partita a biliardo nella sala giochi.
Due ore dopo.
La vicina bussa alla mia finestra servendosi di una mazza da scopa.
“Bella, ma tutto bene? Tu non devi reagire così, questi sono animali, sono cose loro, non ci pensare, sono persone cattive, tu non ti devi mai affacciare! Una volta, una ragazza di 21 anni è morta sul suo balcone per un colpo volante! Stai più tranquilla adesso? Vuoi un caffè, qualcosa? Beh, vatti a fare una passeggiata…”
Faccio un cenno con la testa e torno dentro.
Penso allo sguardo suo di prima e cerco, invano, di spiegarmelo. Magari avrà provato pena per me che poverina non sono abituata a questa realtà, o forse la mia reazione l’ha scossa a tal punto da farle ricordare che è non è poi tanto normale che ci si avverta con 6 colpi di pistola che la resa dei conti è vicina. O magari forse mi ha guardato così senza dirmi nulla proprio perché voleva farmi capire che è così che si vive qua, che è questa la realtà che ho scelto venendo ad abitare alle porte di Forcella.
Poco dopo il giornale serve il loro sporco gioco:
“Gambizzato in pieno giorno il padre di Genny a’ carogna a pochi passi dalla scuola elementare di Annalisa Durante, la bambina uccisa per sbaglio dalla camorra”
Matematico. La trappola mediatica in stile telenovela è pronta. Genny fa notizia, Annalisa Durante pure. Chi di dovere non correrà il rischio di non essere stato avvertito.
Nel resto del mondo i massacri dell’Isis.
L’estate prima.
L’una di notte. Mi sveglio di colpo.
Cinque minuti dopo, tre colpi e un motorino che sfreccia.
Sento le urla del ragazzo agonizzante a terra.
Si spegne.
Aveva 21 anni.
Partono i motorini a farsi giustizia da soli, cercano l’assassino ancora in libertà.
Qualche minuto dopo la polizia e l’ambulanza.
Le urla dell’amico straziano il mio cuore.
Le luci dei palazzi si accendono, i volti dietro le finestre rimaste chiuse. Nessuno si affaccia.
Nel resto del mondo, a Gaza, viene bombardato un asilo.
Quel ragazzo non se lo meritava un articolo sul giornale, era un tizio qualunque che se l’è cercata mettendosi nei giri sbagliati. Non avrebbe fatto notizia.
Mi ci è voluto un anno per cancellare le sue urla, quelle dell’amico che cercava di rianimarlo, della madre che urlava al cielo il suo nome.
Giuseppe. Giuseppe.
Ho imprecato contro me stessa per non essere uscita subito dopo i colpi, magari l’ambulanza sarebbe arrivata prima… magari…
Questa volta però non ce l’ho fatta, sono uscita appena ho sentito le urla innocenti di quei bambini. Con loro ho urlato contro un destino che nessuno ha scelto.
Ho sentito il mio corpo e la mia sensibilità trafitti da quegli stessi colpi.
Non conoscevo il povero ragazzo ucciso e non conoscevo nemmeno il signore che hanno gambizzato. Ma ho sofferto per loro e con loro perché non si può morire ancora così.
Ho visto la morte e la violenza in tutta la loro brutalità e mi sono tormentata per giorni e per notti per cercare una spiegazione.
E, nonostante sia morta dentro, io ringrazio la mia sensibilità per aver tremato e avermi fatto urlare a gran voce
Vivo a Napoli da tre anni e trovo che sia la città più bella del mondo, semplicemente perché è la sintesi perfetta del mondo in cui viviamo. Qui c’è tutto il mondo.
Ho scritto questo articolo a distanza di mesi per lasciare la mia testimonianza, che vedo come piccolo esempio di un atteggiamento comune in questo momento storico così delicato.
Non è Napoli. Non è Forcella.
Ogni giorno veniamo bombardati da scempi ben più disumani. Il rischio che si corre è quello di rimanerne indifferenti o, peggio, anestetizzati dai telegiornali che assomigliano sempre più a delle soap opera, dove la sofferenza è merce preziosa per fare soldi e dove 100 morti fanno più storia di uno soltanto.
https://youtu.be/l4P03NPha-Q
Ho trascorso mesi in contemplazione della mia vita.
Sul pullman per Capodimonte un padre porta la sua famiglia al museo. Il fratellino grande, con mano da uomo, tiene saldamente a sé suo fratello piccolo premendogli la pancia.
Un uomo guarito dalla tossicodipendenza suona la sua batteria, costruita con i contenitori di plastica dei detersivi.
Pino Daniele risuona incessante in ogni vicolo.
Keep on movin’.
https://youtu.be/fIjPYT7YJq4