…Me lo ha insegnato mio padre…

“Il dolore è una energia importante, e in quanto tale, non va sprecato.
Trasforma il dolore in arte, qualsiasi arte, la TUA arte”: questo fu il consiglio che Lucio Dalla diede a Samuele Bersani in un momento di particolare sconforto dovuto a vicissitudini private. Da questo consiglio nacque il tentativo ampiamente riuscito di esprimere il proprio dolore con le parole da parte di Bersani, il quale fu capace di partorire il testo di quella che diverrà, poi, uno dei maggiori successi del grande Lucio: Canzone.

Ho perso mio padre esattamente due anni fa, ma non smetto di ricordarlo. Ho trovato fin dall’inizio una piccola via d’uscita dal dolore, mediante le parole. Parole che già generalmente mi dilettano, ma che per quanto riguarda questo tasto dolente riescono a riempiere parzialmente gli innumerevoli vuoti e aiutano a dar forma ai pensieri.

Una malattia fulminante è capace di portar via le persone fisicamente, ma non debella la presenza delle stesse, neanche minimamente.

Passa il tempo e leggo di te ovunque, anche nelle immagini che mi passano davanti durante le giornate.

Mio padre è la Micra azzurra che mi aspetta fuori da scuola, è quel brevissimo colpo di tosse che precede la parola quasi come a voler rompere il ghiaccio, è il borbottio ad ogni buca non scansata con la macchina, è quel pezzo di pane condito che tanto mi ha fatto amare e da cui non potevo sottrarmi in nessuna maniera, è la spaghettata notturna, è il continuo accorgimento per il dettaglio lavorativo, è quelle mille canzoni ascoltate e riascoltate su Radio Italia anni 60, è svegliarsi la domenica mattina con la voglia di andare a Roma per fare solo una sorpresa a mia sorella, è quel regalo che da impossibile diventa possibile solo ed esclusivamente perché di fondo c’è la voglia di veder felice un figlio o una moglie. Potrei continuare all’infinito e non saprei dove e se fermarmi.

2 anni fa, quando tutto è successo, non pensavo che il dolore potesse in qualche modo entrare a far parte di me. È un dolore feroce che ti sbatte, ti violenta, e tu che provi in qualche modo a divincolarti da esso, le provi tutte pur di non pensarci, di sfuggire.

Non avrai pace fino a che non capirai che da un dolore del genere non si può sfuggire, che l’unica soluzione è accettare anche con apparente autolesionismo la situazione, lasciare entrare tutto questo dolore e farlo diventare parte di te. Il dolore deve esattamente diventare il tuo punto di forza, il punto massimo di sopportazione per poi ripartire e sentirti, in qualche maniera, più forte.

Altre vicissitudini in questi 2 anni mi sono capitate, come a tutti d’altronde, e ogni qual volta la situazione andava peggiorando il mantra che ho ripetuto nella mia testa è stato chiaro: “Non puoi farti abbattere da questo dolore, se dentro te hai la forma massima di dolore che si può provare alla tua età”.

Probabilmente nessuno, se non chi ha provato disavventure come la mia, potrà capire il senso di queste parole, o magari anche chi ha vissuto qualcosa di simile non potrà farlo lo stesso per non avere avuto la fortuna che ho avuto io (non è un caso, l’uso del termine “fortuna”, perché sono dell’idea che delle capacità siamo tutti muniti, mentre molte volte in questi casi sono fattori esterni come le esperienze che si fanno, le persone che si hanno accanto, che ci abbandonano o determinati percorsi di vita differenti che possono fare la differenza e far prendere direzioni diverse).

Vorrei essere da sprone a qualcuno che è stato ancora più sfortunato di me, a qualcuno che non riesce a interiorizzare, ad accettare, che ferma la propria vita nel giorno in cui viene a mancare la persona cara. Vorrei dire che ognuno può trovare dentro sé la motivazione, il modo per tirarsi fuori, non fuggendo al dolore, ma facendone punto di forza, accettando non passivamente, ma attivamente la situazione, elaborandola, concependo il dolore come elemento costituente della nostra vita, allo stesso modo di come lo è la felicità.

Io, per esempio, trovo una minima via di uscita nelle parole che tento di usare per tenere mio padre con me, non rinunciando mai a parlarne, anche all’estremo costo di dover cedere il passo ad alcune controindicazioni come possono essere i frequenti momenti di commozione, ma, in certe situazioni, vi assicuro, possono essere il male minore

Questo è tutto quello che dopo 2 anni riesco a comunicare. Forse l’ho fatto anche perché intimamente, inconsciamente, volevo dare una testimonianza personale sulla mia esperienza, di sicuro avevo bisogno di condividere il nuovo rapporto stabilito con la realtà che ho davanti adesso, una realtà in cui mio padre c’è e ci sarà sempre.


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Maturità classica, dei genitori (e non solo) che avrebbero tanto voluto vedermi continuare studiare, ma la testa dura che ha spinto a impegnarmi nell’azienda di famiglia. Non un ottimo biglietto da visita, ma proprio da qui scaturisce la voglia di mettere insieme dei pensieri, dare vita alle idee sulle tematiche più disparate. Numerose passioni tra lo sport (il calcio in maniera quasi ossessiva). Fruitore ossessivo di cinema, nei generi più disparati. Quando posso viaggio, cercando di capire quanto meno cosa mi sta attorno, cercando di stare dalla parte di chi abita,vive il posto, e non di chi lo visita semplicemente per poi tornare a casa. Cerco di mettermi in discussione su Odysseo spinto dall’importanza che negli ultimi anni ha assunto in me il significato della parola CONDIVISIONE: “Le idee racchiuse in se stesse s’inaridiscono e si spengono. Solo se circolano e si mescolano, vivono, fanno vivere, si alimentano le une con le altre e contribuiscono alla vita comune, cioè alla cultura.” (Gustavo Zagrebelsky)