Perché per essere riconosciuta come donna devo rientrare negli standard di femminilità approvati dalla comunità?

Durante una cena con alcune amiche, mi sono ritrovata al centro tra due conversazioni: da una parte quelle che erano arrivate alla quarta stagione di Orange is the new black, dall’altra quelle che avevano appena iniziato la terza. E così anche il giorno dopo. E quello dopo.

Così alla fine l’ho fatto: ho ceduto al mainstream e ho iniziato anche io a guardare Orange is the new black, una serie pubblicata su Netflix sull’anno in prigione di Piper Chapman, una donna comune incarcerata in un istituto di correzione femminile a causa di un crimine compiuto dieci anni prima.

Come da previsione, sono finita anch’io nel club delle ossessionate dalla serie, per cui in pochi giorni mi sono trovata a pensare e parlare solo di quello che succede nella prigione di Litchfield. Mentre raccontavo ad un amico le ultime dal carcere, sorridendo mi ha detto: “sembra carina come serie, ma con tutte quelle donne… non penso mi appassionerebbe come ha fatto con te”.

La mattina prima, avevo letto un’intervista a Michela Murgia, scrittrice sarda, in cui raccontava come alla domanda di Corrado Augias sul perché lei parlasse solo di libri scritti da donne, lei avesse risposto: “e tu perché parli solo di libri scritti da uomini?”. In maniera plastica, il nocciolo della questione è questo: le donne, come dice la Murgia nell’intervista, sono rappresentate come “sottocategoria socioculturale”. Rappresentiamo una minoranza da tutelare, non la metà del genere umano. Per questo una serie in cui ci sono solo donne è una serie “femminile”, quindi impenetrabile e poco appassionante agli occhi di un uomo, come se le donne, in quanto tali, parlassero ossessivamente di ciclo mestruale e di quanto stiano male le scarpe blu sotto la tuta arancione da detenuta. Questa è rappresentazione di genere. È far sì che tale “minoranza” rientri nei parametri stereotipati che le sono dovuti.

L’essere donna (o il sentirsi tale) comporta necessariamente l’atteggiarsi da donna. E se si colora fuori dai margini, o si viene definite “donne con le palle” (come se l’attributo maschile sia un riconoscimento di forza e autorevolezza), o si è sospettate di omosessualità. A queste costruzioni esterne di quello che è il genere, vi è una risposta interna che, in Orange is the new black, chiude le questioni di rappresentazione del genere femminile: di fatti, tra le detenute, vi è Sophia Burset, una donna trans. La presenza di questa donna dai tratti maschili in un istituto di detenzione femminile è un’aperta contraddizione con la costruzione del genere che conosciamo: Sophia, aldilà del nome con cui è registrata sulla carta d’identità, risulta essere una donna a tutti gli effetti. Dall’altra parte, a Napoli, nell’aprile del 2014 c’era stata la drammatica denuncia di una donna trans ricoverata in ospedale per un ictus, mandata direttamente nel reparto maschile dell’Ospedale. Questo perché la carta d’identità diceva “maschio”, per cui agli occhi degli infermieri risultava maschio, nonostante l’evidenza dell’aspetto e dell’essere donna a tutti gli effetti. Anche in questi due casi ritorna l’inconciliabile differenza tra ciò che è la rappresentazione del genere femminile e ciò che effettivamente è il genere femminile: non una minoranza da tutelare, non un gruppo stereotipato di gonnelle urlanti, non solo i genitali. Come dice la Murgia nell’intervista, risulta quasi che il maschile sia la norma e rappresenti tutti (in una sorta di genere “neutro” che neutro non è), mentre il femminile è l’eccezione e rappresenta se stesso, con parametri determinati dai quali, uscendo, si diventa minoranza della minoranza o, addirittura, deviazione.

Il genere femminile è divenuto una rappresentazione, un’idea, spesso condizionata dai fattori esterni per cui l’essere donna senza interessi femminili fa di sé un’anomalia, l’essere nata donna con un corpo maschile è il risultato di turbe mentali, ambiente malsano, violenza.

C’è un famoso caso medico in cui la contraddizione tra la rappresentazione di genere e il genere stesso emerge con tutta la chiara ipocrisia sottesa. Si tratta della storia di Bruce-Brenda-David Reimer. Bruce, canadese, nel corso di un’operazione alle vie urinarie, è vittima di un errore del medico, per cui ad appena sei mesi gli viene compromesso l’uso del pene. Da qui, i genitori incontrano John Money, medico e teorico della “neutralità di genere”, secondo cui la mascolinità o la femminilità sono il prodotto di agenti esterni, di costruzione. Money convince i genitori del piccolo Bruce a sottoporlo ad un intervento di cambio di genere ad appena 22 mesi e di crescerlo come Brenda.

Nonostante le forzature ambientali, oltre che ormonali, Brenda non è mai stata donna, pur ignorando il proprio vero genere fino a 13 anni, età in cui ha iniziato a pensare al suicido a causa dei tormenti e del bullismo a cui era stata sottoposta. Per cui a 14 anni decide di operarsi nuovamente e assumere il nome di David. Questo porterà al fallimento sia pratico che teorico del metodo di John Money, inducendo ad assumere la prospettiva opposta: il genere è innato, la rappresentanza che se ne fa è fittizia, oltre che inutilmente rigida.

Per cui mi chiedo: perché per essere riconosciuta come donna devo rientrare negli standard di femminilità approvati dalla comunità?

Ma soprattutto, perché per essere donna come mi va devo necessariamente ingaggiare un contrasto col genere maschile, come se fossimo generi assolutamente diversi, ognuno in un suo compartimento stagno?

Ora scusatemi, alle risposte ci penso tra un po’, devo assolutamente finire la seconda stagione di Orange is the new black.