In Europa continentale, nel vastissimo periodo ricompreso tra il secolo XI e l’Ottocento delle codificazioni del diritto, si studiava, si applicava e si sviluppava quello che gli storici sono soliti chiamare   ius   commune

Lo ius commune ossia il diritto comune di matrice romano-canonica, ora come diritto primario, ora come patrimonio giuridico sussidiario rispetto alle norme di diritto feudale, signorile, statutario locale e regionale. In un contesto caratterizzato dalla pluralità delle fonti normative e dei centri del potere legislativo, fiorivano tra i dottori della legge disparati orientamenti interpretativi che rendevano il terreno giudiziario molto contorto ed incerto. All’interno di questo panorama un ruolo fondamentale di interpretazione e di elaborazione normativa è stato rivestito dai cosiddetti Grandi Tribunali, ossia i Parlamenti nella Francia d’Ancien  Régime, e i Senati e le Rote nei vari regni, ducati e repubbliche della penisola italiana. Il fenomeno dei Grandi Tribunali riguardava anche i Paesi germanici e spagnoli.

Nel passaggio dall’età medioevale a quella moderna, tuttavia, si fortificarono le istanze di razionalizzazione ed accentramento dei sistemi statuali, con la conseguente nascita di vari Stati, titolari della potestà legislativa. Gelosi delle proprie prerogative di fronte ai sovrani legislatori, i corpi magistratuali dei Grandi Tribunali si sono spesso posti in attrito con i programmi di accentramento delle fonti giuridiche, sostenendo posizioni conservatrici circa le proprie funzioni istituzionali allargate. Queste peculiari tipologie di tribunali verranno soppresse verso il finire del Settecento, con l’età rivoluzionaria, che delineava un modello di giudice come mera “bocca della legge” secondo la dottrina di Montesquieu, e con il connesso processo di codificazione.

Partendo dalla situazione giudiziaria francese nell’età del diritto comune, occorre rilevare che i Grandi Tribunali territoriali, i   Parlements,   in origine non erano organi di creazione regia e non erano suscettibili di facile subordinazione non solo al monarca bensì pure ad altri organi giudiziari centrali, poiché ciascun Parlamento giudicava in ragione di un diritto diverso, anzitutto nelle aree in cui vigevano varie consuetudini, o   coutumes.  Malgrado tutti i   Parlements  formalmente giudicassero nel nome del sovrano poiché il Re nella monarchia francese era titolare dell’imperium  e della  iurisdictio,   ciascuno di essi divenne autorevolissimo nel proprio territorio.

I Parlamenti costituivano la giurisdizione più alta, civile, penale ed amministrativa; essi avevano la competenza generale per gli appelli verso le pronunce dei tribunali regi inferiori e dei giudici signorili, ed inoltre giudicavano in primo grado per una serie di materie considerate di grande importanza. Il Parlamento di Parigi, sorto dalla   Curia  regis  nella seconda metà del XIII secolo, godeva di una posizione di superiorità rispetto alle altre Corti per via di vari privilegi particolari. Occorre subito rilevare che le pronunce del Parlamento di Parigi, ed in minore misura anche quelle dei Parlamenti delle province del regno, avevano efficacia normativa, in particolare quando tali decisioni rivestivano la forma di   Arrêts   de   règlement,   ossia di provvedimenti giurisdizionali chiamati “sentenze regolamentari”, aventi efficacia generale ma carattere sussidiario alla legislazione regia, in quanto a questa subordinati.

Il ruolo che rivestiva il   Parlement,  nell’emettere queste pronunce valevoli   erga   omnes,   era un ruolo di armonizzazione della legislazione regia, anzitutto per colmarne le lacune, o in virtù della necessità di fornire una più dettagliata disciplina giuridica. La dottrina solitamente annovera l’Arrêt   de   règlement  tra le fonti del diritto dell’AncienRégimefrancese, in una posizione che con gli occhi contemporanei si potrebbe definire gerarchicamente subordinata alle leggi fondamentali consuetudinarie del regno (tra le varie, la legge salica), nonché alle varie tipologie di leggi regie, ma superiori rispetto alle   coutumes, mere consuetudini locali.

Ai Parlamenti erano inoltre attribuite le funzioni di registrazione, verifica e conservazione degli atti legislativi del Re. Essi avevano la facoltà di rifiutare la registrazione, qualora ritenessero che l’atto legislativo violasse la cosiddetta “costituzione del regno” coincidente con le   Lois  fondamentales.  In tali casi i magistrati inviavano al Re il testo dell’atto con una “rimostranza”, contenente la motivazione giuridica del loro rifiuto. Il Re poteva cercare di imporre la registrazione attraverso degli ordini, chiamati   Lettres  de   jussion,  ma il Parlamento aveva un’ulteriore facoltà di rifiuto accompagnato da “rimostranze reiterate”. In questi casi, comunque, se il sovrano riteneva indispensabile l’entrata in vigore dell’atto legislativo, poteva convocare il Parlamento in   Lit  de   justice,   nella   Grande  Chambre  del Parlamento di Parigi, dove appunto si recava personalmente per ordinare la registrazione.

Soltanto in presenza di questa procedura “aggravata”, pertanto, si ristabiliva la netta separazione funzionale tra la magistratura dei Parlamenti e la figura del sovrano, in un rapporto di netta gerarchia.

È importante sottolineare come i Parlamenti, Grandi Tribunali francesi, fossero titolari di una serie di prerogative che oltrepassavano i recinti della funzione giurisdizionale in senso stretto e che, come ormai pacificamente si sostiene in dottrina, al Parlamento parigino fosse attribuito un ruolo normativo. Autorevoli studiosi hanno osservato che in una certa misura il Parlamento di Parigi rivestisse pure un ruolo di giudice della “costituzionalità” delle leggi.

Indicativamente si ricordi poi che il Parlamento parigino, nel 1788, giunse addirittura ad emettere un atto in cui si affermava che dovessero essere considerati tra le   Lois  fondamentales  del regno francese anche alcuni istituti di garanzia del cittadino, quali l’Habeas   corpus,   di origine inglese, e il principio del giudice naturale quale giudice designato dalla legge.

Trattando brevemente della situazione italiana, invece, si osservi che nei diversi Stati dell’Italia operavano dei tribunali centrali, divenuti molto autorevoli già nel secolo XVII. Per ricordare i più famosi, si pensi alla Rota romana, al Sacro Regio Consiglio del Regno di Napoli; altri importanti tribunali – questi non centrali – furono i Senati sabaudi di Chambéry per la Savoia, e di Torino. All’inizio del XVIII secolo la Rota giudicava in appello le cause di valore superiore a cinquecento scudi, e su consenso delle parti o in determinate condizioni anche in prima istanza; la sua competenza territoriale era illimitata per le cause ecclesiastiche civili, ed era generale per tutto lo Stato pontificio per le cause civili anche non ecclesiastiche. I Senati, invece, da un lato avevano poteri non soltanto giudiziari bensì pure legislativi, ma dall’altro lato erano strettamente soggetti al principe, divenendo pertanto espressione unica della politica regia sul diritto.

La dottrina storico-giuridica, a rigore, ha in generale rilevato come tra il processo di accentramento del potere regio e l’autorevolezza dei Tribunali vi fosse un rapporto di crescita inversamente proporzionale: al crescere del primo si ridimensionava la seconda. Al crescere del potere magistratuale, poi, era associato l’incremento dell’affermazione del diritto comune di matrice romanistica, poiché i Grandi Tribunali in seno alla propria giurisprudenza pratica custodivano, ridefinivano ed applicavano lo   ius  commune,  ancora vigente, in una situazione di coesistenza con gli usi locali e regionali, e con gli statuti, a seconda delle aree.

Il ruolo rivestito da questi Grandi Tribunali era centrale, perché essi emanavano delle decisioni che trovavano la propria ragione nel sovrano giustiziere, dato che operavano in nome del sovrano medesimo. Le sentenze emesse furono raccolte in volumi di “decisiones”, e rivestirono un ruolo simile a quello della   communis   opinio  dottrinale, ossia quello di riferimento istituzionale e di stella polare all’interno degli ondivaghi orientamenti interpretativi. Durante i secoli XVI-XVII tali raccolte ebbero addirittura più successo dei “consilia”, e il giurista che assunse maggiore centralità fu il giudice di tali tribunali.

I Senati italiani, infatti, si ponevano come rappresentanti della persona del principe, ma l’odierna dottrina rileva come ciò sia un dato da leggere anche dall’altra parte della medaglia, poiché tale rappresentatività non implicava soltanto subordinazione, bensì pure una pretesa da parte della magistratura alla partecipazione insieme al sovrano nella creazione del diritto. Il valore non soltanto applicativo ma anche meta-legislativo delle pronunce dei Grandi Tribunali, invero, fu una delle rivendicazioni che implicitamente si agitavano nelle dialettiche istituzionali dell’Italia nell’età del diritto comune. I magistrati dell’èra moderna, quindi nella seconda stagione dello iuscommune, si sentivano un corpo statuale in continuità con i Pari, feudatari e nobili di spada, di quella Curiaregische nell’alto Medioevo affiancava il sovrano nella creazione del nuovo diritto.

Alcuni Grandi Tribunali italiani, ed in particolare il Senato di Piemonte le cui sentenze avevano “forza di legge”, avevano il potere di sottoporre alcuni provvedimenti sovrani ad un vaglio preventivo, ed è proprio in questa funzione di controllo di legittimità che una parte della dottrina ha rilevato la continuità tra la   Curia  regis   medioevale e il ruolo non soltanto giurisdizionale in senso stretto dei tribunali in questione.

Il ruolo dei Grandi Tribunali nell’evoluzione delle garanzie e della controllabilità dell’operato giudiziario è stato molto rilevante, poiché alcuni di essi iniziarono a formulare la motivazione delle pronunce. Nel corso del XVI secolo furono istituite le Rote di Perugia, Bologna, Macerata, Ferrara, con competenza territoriale limitata nel relativo Stato; in queste Rote si introdusse l’obbligo di motivare le sentenze quando il valore delle relative cause eccedesse un limite prefissato, e a Bologna, dove in generale si ha traccia di motivazioni costanti già nella metà del Quattrocento, tale obbligo venne minuziosamente regolato. Nel ducato di Milano non si ha notizia di motivazione delle sentenze, ma si concepiva la “decisio” come esposizione in compendio delle ragioni delle parti, critica delle stesse e motivata presa di posizione della Corte. Nel Regno di Napoli, ma non solo in esso, invece, i magistrati fecero molte resistenze quando vi furono le proposte di introduzione dell’obbligo di motivazione.

Il Senato di Chambéry in Savoia, come i   Parlements  francesi, era considerato una corte sovrana, con notevoli attribuzioni politiche e di rappresentanza del ducato nei confronti del sovrano; in esso non si ebbero motivazioni fino alle riforme della prima metà del XVIII secolo. Le motivazioni obbligatorie, infatti, si svilupparono per lo più per via legislativa, ma il ruolo dei tribunali fu fondamentale.

Le “decisiones” dei Grandi Tribunali costituirono un salto di qualità nella confusione delle disparate interpretazioni dottrinali dei dottori, e in età di   ius   commune  l’utilizzo di tali pronunce come “fonte” del diritto divenne una pratica giudiziale ordinaria e diffusa. Il loro grande numero e la loro eterogeneità, però, giunsero in seguito a renderle, al pari delle opinioni dottrinali, di dubbia affidabilità.

La cura per la storia del diritto e della società è una cura per gli attrezzi che servono a sondare coscientemente il presente, il reale. Tale cura scientifica è paragonabile al viticoltore che accarezza i tralci della terra che accompagna nel processo di fecondità naturale, o al nonviolento samurai che sgrassa e lucida e lima la propria spada.

La cura per la storia del diritto non è staccabile dal presente, perché giunge a scrutare la fluidità del presente con una lente complessa, che trova la propria gradazione nel tempo e nello spazio. Leggendo qualche briciola delle interminabili sudate carte dei grandi studiosi di storia del diritto, ho appunto l’impressione che lo scienziato del diritto storico sia come un viticoltore, perché egli osservando il frutto maturo ne ricorda le diverse fasi di generazione e crescita, anche se lo storico – ovviamente – non può aver accompagnato in-prima-persona le scorse stagioni dei prodotti del presente; altrimenti sarebbe un testimone diretto o indiretto, e non uno scienziato. Egli potrebbe pure essere assimilato ad un samurai, perché il suo costato chino sui libri e sulle carte, impugnando la penna, impugna la spada saggia e prudente del samurai, per incidere – bisbigliando sulla roccia della letteratura – possibili e sempre confutabili vie di prevenzione dal pericolo di tragici ricorsi storici, pur nella consapevolezza della unicità d’ogni istante nella scansione temporale della vita. L’occhio curioso del curatore della storia giuridica, tra le fatiche in orizzonti estensivi e le rigenerazioni in ameni orizzonti distensivi, vive il mondo indagando il vissuto per un miglior vivibile.