“Credo che neppure Abele avrebbe voluto l’ergastolo per Caino, altrimenti Abele sarebbe diventato come Caino, come sta accadendo in questo periodo, che i “buoni” stanno diventando peggio dei cattivi e la cosa più brutta è che lo stanno diventando in nome della giustizia.” (Carmelo Musumeci).

Qualche giorno fa ho letto un pensiero scritto dal Sindaco di Bari dopo la sua visita al carcere minorile Fornelli. Raccontava dell’incontro con un giovane detenuto da lui stesso denunciato poco tempo prima, descrivendo la sua inquietudine per aver contribuito a privare della libertà – seppur a ragione – una giovane vita in quella che dovrebbe essere l’età della spensieratezza.

In un momento storico socio-politico in cui l’unica comunicazione possibile sembra essere quella fatta di divisioni tra buoni e cattivi, tra vittime e carnefici, tra bianchi e neri, scoprire che qualcuno si ferma ancora a leggere tra le sfumature della complessità e riesce a generare una riflessione carica di lucida umanità su un tema così delicato, solleva.

In Italia siamo molto indietro nel dibattito sui temi della detenzione, delle pene alternative e sulla funzione riparativa della Giustizia. Prima della fine della scorsa legislatura, il Governo aveva lasciato nel cassetto, tra gli altri, i decreti attuativi della riforma dell’ordine penitenziario. Quei decreti, poi, sono stati ripresi dal nuovo Governo, accuratamente svuotati ed entrati in vigore lo scorso 10 novembre.

Sono state rimosse e archiviate le proposte tese a rivitalizzarle le misure alternative alla detenzione, che dovevano conseguire il duplice obiettivo di ridurre il sovraffollamento penitenziario e di consentire di scontare almeno parte della pena in modalità effettivamente risocializzanti e propedeutiche al ritorno nella società.

Nel frattempo, il 2018 ha fatto registrare un nuovo record negativo per il numero di suicidi in carcere: sono stati 65, superando di gran lunga la cifra dell’anno precedente, quando il contatore si era arrestato a 52 casi.

È credenza comune ritenere giuste le condizioni disumane in cui il reo deve scontare la sua pena, qualunque essa sia. L’espressione “è giusto, deve pagare per quanto ha fatto”, “deve marcire in galera” dilagano tra la popolazione, che non prova pietà né tantomeno vergogna per le atrocità, per lo stato disumano, per la violazione dei diritti che i detenuti ogni giorno, per tutto il tempo della loro detenzione, devono subire.

Uomini e donne pronti a battersi il petto tre volte ogni Domenica e alle festività comandate, che sembrano però dimenticare all’occorrenza il valore del perdono in nome di una Giustizia che ha più il gusto della vendetta.

Il carcere non è la panacea di tutti i mali. Spesso, anzi, le carceri sono vere e proprie scuole del crimine, come mostrano anche le statistiche che collocano il nostro Paese nelle primissime posizioni per i casi di recidiva, oltre ad essere luoghi di ingiustizie e sofferenze.
E una Società può dirsi giusta se, oltre a pretendere che non ci siano reati, si preoccupi che non ci siano luoghi di ingiustizie e sofferenze.

Quella stessa politica che oggi si fa vanto di riuscire a parlare al popolo, alla pancia del Paese, sembra essersi dimenticata che lo Stato è chiamato anche ad educare i suoi cittadini, a sradicare le credenze comuni, a costruire una società che, conscia dei suoi limiti, miri a costruire un futuro dignitoso per tutti, garantendo anche una seconda possibilità a chi, dopo aver “sbagliato”, se ne sia pentito.

Così non è. E il carcere, ormai, è divenuto una pentola che bolle nell’indifferenza: di chi avrebbe il potere e il dovere di spegnere il fuoco e nel cinismo di chi vi soffia sopra per attizzarlo ulteriormente.


1 COMMENTO

  1. Riporto qui una riflessione letta questa mattina che, grata, condivido: “L’amministrazione della giustizia è una delle funzioni primarie e costitutive di uno Stato.
    Già il mito delle Erinni, divinità della Furia, trasformate in Eumenidi, divinità della Giustizia ponderata, aveva simbolicamente segnato la nascita di una concezione moderna di civiltà giuridica.
    La Giustizia, infatti, è il fondamento dello Stato ed è garante della sua tenuta, poiché attraverso il suo esercizio viene protetta la vittima e la comunità, viene esaltata la funzione sociale della triade giudice, accusatore e difensore e, allo stesso tempo, viene riscattata la stessa umanità del reo.
    Purtroppo da decenni in Europa (e non solo) si assiste ad una crisi dell’idea stessa di Giustizia, percepita sempre meno quale strumento di ricomposizione sociale e sempre più quale strumento di vendetta.
    Se è vero che il reato compie una frattura nella convivenza civile, la Giustizia interviene per ricomporre questa stessa frattura, nel modo descritto poco sopra, riscattando la vittima, ma, in un certo qual modo, anche lo stesso colpevole.
    La vendetta, al contrario, lega vendicatore e reo in un inestricabile abbraccio che sospinge entrambi verso il basso, verso il cuore di tenebra della frattura sociale creata dal reato, senza ricomporla ne’ riscattare alcunché.
    Ancora più grave è assistere ad una somministrazione della vendetta che si assommi all’esercizio del potere: chi agisce tramite vendetta e tramite potere (ovvero, come diciamo oggi, per costruzione del consenso), non solo non ricompone la frattura sociale scaturita dal reato, ma vi sottomette la propria funzione, rendendola politicamente indegna, e crea una lesione incalcolabile alla collettività.”
    (ieri un post di Dimitri Cavallaro Lioi)
    https://www.facebook.com/100002580561722/posts/2049686155127383/

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