Uno copiato, nessuno originale, centomila fakes…

L’essere umano, fin dai suoi albori, ha sempre cercato, fuori da se stesso, un alter ego con cui condividere pareri e sensazioni, una copia pedissequamente ricreata in grado di sperimentare condizioni esistenziali che egli stesso non poteva sopportare. Così Adamo sacrifica una costola per trovare compagnia in una fedifraga Eva o gli antichi Faraoni riproducevano la propria effigie in sarcofagi immortali.

Anche nella letteratura la teoria del “doppio” ha macchiato le pagine dei più grandi scrittori. Macchie d’inchiostro, una sopra l’altra, bozze di componimenti che Emily Dickinson definisce attraverso un’equazione algebrica, stavolta, del tutto opinabile. “One and one is one”, uno più uno fa uno, se vogliamo uno slogan che precorre ideali pentastellati, in realtà la propensione che ognuno di noi ha di manifestrare più versioni della propria identità. Uno spettacolo di maschere, insomma, quelle utilizzate dal commediografo latino Plauto o da Luigi Pirandello che in “Uno, nessuno, centomila” declama le insicurezze di un uomo a cui sua moglie fa notare di possedere un setto nasale leggermente deviato. Sono i dubbi che Mattia Pascal non riesce a fugare neppure nelle vesti di Adriano Meis, Sono i livori personali che William Shakespare introietta nelle dinamiche coniugali del Macbeth, uomo e donna al contempo, marito e moglie che si fondono in un’unica e sconfortante anima.

Ci ristrutturiamo tramite impalcature applicate lungo l’effimero scheletro di un utopistico gemello. La penna è quella di Carlo Goldoni ne “I gemelli veneziani”, la cinepresa appartiene, invece, a David Fincher nel suo esclusivo “Fight Club”. Controfigure differenti che assumerebbero le stesse sembianze se si comportassero come Goljadkin nel “Sosia” di Dostoevskij. Il buon Fedor mette in bocca al suo personaggio parole impronunciabili, lo rende più forte e sicuro di sé, lo cala nelle situazioni più kafkiane per poi tirarlo fuori con fermezza e nonchalance.

La magia del “doppio” intesa come copia e incolla di una tastiera dietro cui nascondersi per amplificare il nostro miglior profilo social, la magia del “doppio” rappresentata da una pozione che permette a Stevenson di trasformare un composto Dottor Jeckill in un mendace ed efferato Signor Hide.

Trattasi di un tunnel senza nitore, il circolo vizioso che fagocita più facce del medesimo dado. Il doppione come rivale, è lo “Shining” di Kubrick, bagliore accecante che Pasternak fa brillare negli occhi del Dottor Zivago. Una riproduzione tutt’altro che automatica. Già, perché masterizzarsi presuppone l’incontestabile presenza di un originale da plasmare in maniera apodittica, non realizzando di essere, effettivamente, palline su un piano inclinato, soggette a turbolenze e ostacoli.

D’altronde, persino a Narciso fu detto che avrebbe iniziato a soffrire guardando la propria immagine riflessa, dopo aver conosciuto davvero se stesso…