Claud Adjapong, nato per far gol in azzurro, anche se la sua pelle non è bianca
Una favola, un’incredibile avventura ai confini del mondo, confini da abbattere e superare, per contemplare un orizzonte torbido di emarginazione e terso di umanità. Correre insieme, da compagni di squadra, lungo l’arcobaleno della speranza, verde come un campo di calcio.
Su quel campo, domenica 2 ottobre, Claud Adjapong ha distrutto le barriere dell’integrazione per esordire sul palcoscenico più bello che ci sia. Milano, Stadio Giuseppe Meazza, proprio lì, zona San Siro, la “Scala del Calcio”, da salire senza voltarsi indietro, per ascendere alla gloria non rinnegando le origini ghanesi dei propri genitori. Claud è fiero di sentirsi africano dentro, il passato non si può cancellare, le ferite della fame, patite da papà e mamma, sono ancora aperte e lancinanti.
Immigrazione o schiavitù, fate voi, ma Adjapong, nato a Modena nel ’98, oltre ad essere un italiano dalla pelle scura, è un fuoriclasse con la palla tra i piedi. Attaccante esterno, per la precisione, è questo il ruolo assegnatogli da Mister Eusebio Di Francesco, allenatore del Sassuolo Calcio, società sportiva da sempre attenta alla valorizzazione dei giovani.
Una “Prima” dell’Opera, dicevamo, una pièce teatrale ed agonistica che non ammette repliche. L’avversario è di quelli prestigiosi. Ma, al cospetto del titolato Milan, l’inibizione lascia spazio alla voglia di essere protagonisti. Claud combatte e si sbatte dimenandosi tra le maglie dei difensori rossoneri, un giorno perfetto che sarebbe stato sugellato da un gol, annullato giustamente dall’arbitro Guida.
Partita avvincente, Milan in vantaggio, Sassuolo che pareggia e va anti 1-3, rimonta definitiva degli uomini di Montella. 4 a 3 il risultato finale, come lo storico incontro tra Italia-Germania, nel 1970, a Città del Messico. Una targa commemorativa adorna tuttora l’ingresso dello Stadio Azteca, perché i grandi eventi vanno ricordati, i campioni celebrati e le promesse aspettate.
Non si deve rimandare un talento, non si può rigettare in mare la vita di chi ha qualcosa da offrirci. Lo sport, in fondo, è comunione di intenti, occasione di solidale aggregazione, mettere gli interessi individuali al servizio della collettività, un arricchimento costante da e per chi è diverso, accettazione dell’altro, ospitalità scevra di invidie, sostanzialmente identificazione che esclude paletti sociali, religiosi e territoriali.
Claud Adjapong conserva ancora le scarpette regalategli dal parroco dell’Oratorio di Sassuolo. Ha affisso nella sua stanza i poster di Eto’o e Dani Alves. Dice di ispirarsi a loro, due simboli della lotta al razzismo presente, purtroppo, negli incresciosi cori di spalti sempre meno tolleranti.
Eto’o imitò una scimmia, Dani Alves raccolse da terra una banana che lo colpì e, sbucciandola, la mangiò ingoiando il boccone amaro dell’ignoranza politica alienante e nichilista.
Adjapong, oggi, è un puro e a chi gli chiede come mai i suoi abbiano deciso di farlo nascere proprio qui, lui risponde disincantato: “Semplice, sono nato per far gol in maglia azzurra!”