Oltre un miliardo di persone al mondo lo parlano, ma per molti resta un misterioso sconosciuto.

“Cin, ciun, cian” – così recitano forme blasfeme di cinese elementare. “Unci, dunci, trinci” rimano poliglotti versetti popolari. È innegabile: la conoscenza nostrana del cinese spesso si limita a divertenti canzonature, anche un po’ ad effetto, potremmo dire. Peccato, però, che “unci, dunci, trinci” sia l’incipit di una filastrocca tutta italiana, con alcune varianti regionali. Studiare il cinese è cosa ardua, roba da “studio matto e disperatissimo” per dirla con l’ottimismo di sempre, quello di Leopardi. Eppure è anche affare un po’ faceto, a fronte della sua natura ideografica che esercita un fascino senza dubbio esotico.
Cerchiamo innanzitutto di fare un po’ di chiarezza. È doveroso sottolineare che con l’espressione “lingua cinese” spesso ci riferiamo, erroneamente, al solo cinese mandarino, benché quest’ultimo sia solo una delle sette maggiori varietà linguistiche cinesi. Un’esplorazione approfondita di questo gruppo linguistico va oltre il nostro obiettivo, e comporterebbe uno studio della profonda diversità che caratterizza la realtà cinese. Tuttavia, vale la pena conoscere quantomeno i tratti generali del cinese mandarino, dato che una lingua può dire molto sulla cultura e sul pensiero del popolo che la parla, giochi di parole a parte.
Quali sono, dunque, le caratteristiche più distintive del mandarino (chiamato, dai cinesi, 普通话pǔtōnghuà, “lingua comune”)? Innanzitutto, il mandarino rientra tra le cosiddette lingue tonali, in cui la diversa intonazione della voce (esattamente come se si cantasse) cambia completamente il significato di una parola – da qui l’abitudine di imitare la parlata cinese producendo una pseudo-cantilena.

L’altro tratto saliente del cinese è indubbiamente il sistema di scrittura, adottato anche da giapponesi (ancora oggi), coreani e vietnamiti (un tempo) per trascrivere le loro lingue. Non è solo uno dei sistemi di scrittura più antichi al mondo, ma anche l’unico sistema ideografico (o, meglio, logografico) ancora in uso ai giorni nostri (un altro esempio celebre è la scrittura geroglifica egizia). Questo equivale a dire che ogni carattere cinese racchiude sia la pronuncia che il significato.

Tale concetto è difficile da cogliere per gli occidentali, abituati a sistemi di scrittura esclusivamente fonetici, e non di rado può capitare di trovarsi di fronte all’ennesimo amico che si è tatuato “il proprio nome in cinese”, che potrà anche essere fedele nella pronuncia ma dal significato incerto. Un esempio? La sillaba “giu” nel nome “Giulia” potrebbe essere trascritta con 珠 o 猪, entrambi pronunciati zhū, ma il primo col significato di “perla” e il secondo di “maiale”. Ci insegna bene Wolfram Eberhard, noto sociologo del XX secolo, affermando che i cinesi sono “gente dell’occhio”. È questa la più grande differenza con gli occidentali, “gente dell’orecchio”.

Insomma, semplificando al massimo e forse a discapito di una più esatta precisione scientifica – non ce ne vogliano i massimi esperti sinologi – i caratteri cinesi sono in primo luogo disegni, pertanto rivolti all’occhio, piuttosto che aggregati di suoni. Allenare l’occhio sarebbe una delle prime cose da farsi quando ci si appresta allo studio della lingua cinese, ed è quello che proviamo a fare oggi.

Iniziamo con 好 hǎo: significa “buono” e disegna una donna 女 (nǚ) affiancata da un bambino in fasce con le braccia spiegate 子 (zǐ). Non sono vaneggiamenti di un ubriaco queste, ma solo oggettive descrizioni. É un sentimento di “buono” quello che suscita una mamma col suo bambino, un suggerimento di situazione “propizia” quello derivante dalla presenza di una donna/moglie/madre e di un figlio. Prima che i più urlino al maschilismo della società cinese e denuncino l’dea di una donna/utero, vorrei ricordare che i caratteri cinesi hanno una storia plurimillenaria e, pertanto, ogni etimologia andrebbe idealmente calata in un lontano passato essenzialmente rurale. E ancora, il bambino sotto un tetto 字 (zì), che non è il fratello di Steve Urkel ma indica i caratteri cinesi, volgarmente e non propriamente detti “ideogrammi”. Perché? Perché un bambino sotto un tetto ed, estensivamente, all’interno di uno spazio chiuso, studia, legge e, dunque, impara a scrivere. I cinesi, sotto un tetto, non ci mettono solo i bambini ma anche donne e maiali. Il maiale sotto il tetto 家 (jiā) è simbolo di “casa” giacché nei tempi antichi era consuetudine tenere dei capi di bestiame, per aver da mangiare nei frequenti periodi di carestia: un’assicurazione di vita il maiale, dunque, simbolo di un luogo abitato da umani.

Quando in casa c’è una donna 安 (ān), allora, ci sono pace, tranquillità e sicurezza, in barba agli incidenti domestici e alle assicurazioni INAIL. I mentecatti che sentenziano “Donne al volante, pericolo costante”, sarebbero pronti a fare di questo carattere il proprio gonfalone, forse, insinuando che la donna dovrebbe rimanere in casa per il bene proprio e della comunità. Bando alle ciance, la storia starebbe suppergiù in questo modo: in un lontano passato di guerre e messe a ferro e fuoco, alcuni soldati cercavano una donna, destinata ad essere uccisa; una casa, tuttavia, le avrebbe permesso di nascondersi in “sicurezza” e di sfuggire al peggio. E visto che, forse, manca un po’ di virilità a questo articolo al femminile, aggiungiamo che il maschio è, per il cinese grafico, la forza nei campi. 男 (nán) rappresenta un campo suddiviso in appezzamenti di terreno 田 (tián) che sormonta un braccio piegato nell’atto di mostrare il suo muscolo 力 (lì, che significa “forza”). Tutti uguali ‘sti maschi, tutto muscolo e niente cervello!
Potremmo continuare ancora con queste folli elucubrazioni, ma forse è meglio fermarsi e darvi il tempo di allenare l’occhio, magari appoggiati ad un albero, prendendo profondi respiri col naso e rallentando il battito cardiaco, in riposo 休息. Ma non senza un’ultima curiosità: la parola “mandarino” deriverebbe dal portoghese mandarim, “ministro, consigliere”, e indicava, in passato, i funzionari della burocrazia cinese. Non a caso, quindi, il frutto dal tipico colore giallo-arancione porta lo stesso nome!

Marco Civico e Giuseppe Lomuscio


 

[ Foto: Marco Civico ]

 

 


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Ciao a tutti, mi chiamo Marco, classe 1988. Sono nato e cresciuto a Trani, sempre nel mio cuore insieme ad Andria, città che ha dato i natali ai miei genitori. Ho svolto studi di economia e, grazie a impegno e dedizione, ho avuto molte possibilità di viaggiare per il mondo. In particolare, il paese che più mi ha segnato culturalmente è senza dubbio la Cina, dove ho studiato e lavorato per circa due anni. Terminati gli studi, mi sono occupato di consulenza per le istituzioni pubbliche, ma dopo non molto la mia passione per le lingue e le culture del mondo mi ha portato a voltare pagina. Attualmente vivo in Svizzera, a Ginevra, dove svolgo un dottorato in economia e gestione del multilinguismo e lavoro come assistente universitario. Benché col tempo frammenti di svariate culture siano andate a costituire un mosaico nel mio spirito, è sempre forte il sentimento che mi lega all’odore del mare, degli ulivi e della terra bruciata dal sole della Puglia, in cui trovo sempre conforto.