Confessioni di uno studente di giurisprudenza in occasione del 24^ anniversario della strage di Capaci.
Caro Giovanni,
sì, lo so, dovrei darti del lei e chiamarti perlomeno “dottore”, ma immagino che dove ti trovi adesso i convenevoli non contino molto…
Caro Giovanni,
non ero ancora nato il 23 maggio 1992, quando tu, tua moglie Francesca Morvillo e tre uomini della tua scorta, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Vito Schifani, siete saltati in aria.
Caro Giovanni,
io sono un giovane studente al primo anno di giurisprudenza, ho appena vent’anni e di te ho solo sentito parlare nei telegiornali, a scuola, a casa. Insomma, un po’ ti conosco e conosco la tua storia, ma alla lontana, quanto basta per dire che, in fondo, non mi tocca in prima persona.
Caro Giovanni,
… e invece no.
La tua storia mi interessa eccome. E non solo perché studio giurisprudenza.
Qui a Trento, alla mia università, ho avuto però modo di approfondire la tua conoscenza. Ho così saputo del maxiprocesso di Palermo e della sentenza che inflisse 360 condanne per un totale di 2665 anni di carcere, ma ho anche saputo di quante volte ti hanno ammazzato da vivo, prima che da morto…
Ho saputo di quando Antonino Meli fu scelto al posto tuo per succedere a Caponnetto e di come questo, di fatto, segnò la fine della stagione del pool antimafia. Ho saputo del fallito attentato dell’Addaura, pilotato forse, come tu dicesti, da “menti raffinatissime”, e dell’amara vicenda del “corvo”, con una serie di lettere, un paio persino su carta intestata della Criminalpol, tese unicamente a screditare te e i tuoi amici e colleghi più fidati.
Ho saputo, e mi ha fatto particolarmente male, della stagione dei veleni, incominciata quando eri ancora vivo, e continuata anche dopo la tua morte, con sedicenti militanti dell’antimafia che sono giunti ad accusarti di aver organizzato l’attentato dell’Addaura per farti pubblicità e di tenere chiusi nei cassetti chissà quali segreti su delitti eccellenti. Ho saputo dell’ostilità nei tuoi confronti di tutto un mondo politico che ufficialmente plaudiva al tuo impegno e di fatto lavorava a screditarti, a isolarti, a renderti un bersaglio facile per la mafia.
Caro Giovanni,
ora so che, nonostante tutto questo, tutta l’amarezza, la consapevolezza del rischio che correvi, e che si è tragicamente avverato, nonostante la solitudine in cui ti hanno lasciato, tu non ti sei mai tirato indietro, hai continuato a fare il tuo lavoro, un giorno dopo l’altro, fino in fondo, fino al tuo ultimo giorno.
Caro Giovanni,
perché ti scrivo? Per dirti grazie. Perché, anche se io non ero ancora nato, anche se la tua è una storia che ad alcuni miei coetanei può apparire già lontana, in realtà un uomo vissuto e morto come te è motivo di grande speranza per un giovane studente come me.
Perché ci si dovrebbe iscrivere a giurisprudenza per sete di giustizia, quella che ha animato te, e non per inseguire il miraggio di una carriera brillante e chissà quali lauti guadagni.
Perché si dovrebbe studiare per essere alla tua altezza e non per forme di captatio benevolentiae del docente di turno.
Perché gli uomini come te non sono mai veramente soli, non muoiono mai e camminano con noi.
Per tutto questo, e altro ancora, ti dico grazie e dico grazie anche a voi, Francesca, Antonio, Rocco, Vito che, in maniera diversa, avete amato quest’uomo e gli avete consacrato le vostre giovani esistenze.
23 maggio 1992: la mafia inizia a morire, Falcone e i suoi continuano a vivere. Le loro idee sono oggi le nostre idee e noi siamo pronti a continuarne la battaglia.