
NICO, LA NINFA DOLCE E TENEBROSA
Difficile ricostruire la vita di Christa Päffgen, ai più nota come Nico, con la certezza delle fonti a nostra disposizione. Contraddittorio, certo, perché il materiale non manca, ma la sua sembra la storia di una ninfa nata per far ritorno nei boschi, a cui si associano leggende e narrazioni che ne accrescono l’alone di misticismo, di cui la stessa Christa si è nutrita in maniera più che voluta.
Nacque a Colonia il 16 ottobre 1938, o almeno questa è la versione ufficiale.
Suo padre era un soldato della Wermacht, morto in un manicomio a seguito di ferite riportate alla testa. Sulla stessa fine dell’uomo ci sono notizie contrastanti che lo vorrebbero addirittura deceduto in un campo di concentramento. La figlia giocò sulla figura del padre dicendo che era un sufi turco, amico persino del Mahatma Gandhi, o facendolo appartenere al lignaggio di noti birrai di Colonia. Si sa che Christa visse con la madre e il nonno il periodo post bellico nella Berlino distrutta che lei definì “un deserto di mattoni”, scenario e protagonisti che ben si sarebbero potuto sposare con i romanzi di Heinrich Böll, esponente di spiccò della Trümmerliteratur (letteratura delle macerie), perché se c’è qualcosa di innato che questa figura, eterea e allo stesso tempo concreta, possedeva era la sua capacità di attrarre le persone, di farsi notare.
Sono gli stilisti dell’alta moda a notarla per primi.
Dopo aver lasciato la scuola e aver lavorato come sarta, fu sua madre ad avviarla al mondo della moda che la portò a lasciare Berlino per andare a sfilare a Roma, Parigi, passando per Ibiza, terra che amerà fino all’ultimo giorno della sua vita.
In quel contesto diventò Nico.
Fu Herbert Tobias, fotografo, ad assegnarle quel nome e a svelarla definitivamente al mondo. Androgina, creatura dall’ineguagliabile bellezza, arrivò persino a sfilare per Chanel e a prestare il suo volto per le copertine dei più importanti giornali. Ma si sentì subito oppressa dalle lunghe passerelle dell’alta moda.
Colpì Federico Fellini che la fece recitare in una scena de La Dolce Vita (1960), teofania breve ma di impatto sconvolgente che l’abilità del noto regista fece svanire silenziosamente nella scena, sfumando quasi quella figura sovrumana.
Chi la stava pensando in pianta stabile nel mondo del cinema si sbagliava perché il suo grande desiderio era quello di intraprendere la carriera musicale.
New York divenne la tappa successiva.
Nella Grande Mela la si vedeva spesso cantare nel noto locale Blue Angel, dove, come di consueto, non passò inosservata a persone influenti e nel giro di poco tempo entrò in contatto con i Rolling Stones, periodo segnato da una storia con Brian Jones.
Gli amori, tanti, quelli di Nico.
Da una relazione con Alain Delon nacque Ari, figlio mai riconosciuto dal padre e cresciuto dalla madre di lui, dalla quale acquisì il cognome Boulogne.
Tornando alla sua carriera musicale, importante fu il suo incontro con Bob Dylan, tirocinio per un altro decisivo connubio con Andy Warhol a cui presentò una sua registrazione. Il singolo passò dalle mani dell’artista a quelle di Paul Morrissey, che dopo averla ascoltata, la consigliò a Warhol di unirla ai Velvet Underground. “La creatura più bella che sia mai esistita” a quel punto entrò nella formazione dei VU, ma non senza difficoltà. Lou Reed, sospettoso per quel suo rapporto artistico con Dylan, la accolse con diffidenza. John Cale affermò che lei fosse sorda ad un orecchio, il ché non era ideale per il suo canto. Ciononostante, Nico registrò tre brani di quell’ album che ebbe in copertina la famosa e iconica banana disegnata da Warhol. Nei concerti la sua presenza scenica fu sempre singolare, a metà strada tra l’essere una bellissima creatura divina e un freddo ghiacciolo.
Con i Velvet non durò molto.
Il prologo tra l’altro era stato già tormentato.
La sua carriera musicale continuò da solista, nella quale cantò liriche intrise di atmosfere cupe, elevandola a sacerdotessa del gothic.
Il suo primo album da solista fu Chelsea Girl del 1967, uscito qualche mese più tardi rispetto al lavoro con il suo vecchio gruppo.
Era nel vortice musicale e, come spesso accadeva in quegli anni nella vorticosa vita degli artisti, quel periodo della sua vicenda esistenziale fu segnata dall’uso di LSD e droga, eroina in particolare, una coscienziosa disintegrazione che amava dichiarare in questi termini: “Un vero artista deve autodistruggersi, mi pare che io ci stia riuscendo.”
Eppure, nonostante i presupposti, la sua vita non sarebbe stata stroncata da un’overdose.
Singolare la scena del suo epilogo.
Si trovava a Ibiza, dove aveva affittato un cottage.
Era uscita in bicicletta per comprare della marijuana, come riferì suo figlio Ari. Cadde e sbatté violentemente la testa. Soccorsa da un tassista priva di conoscenza, fu trasportata in ospedale dove la diagnosi fu completamente sbagliata: insolazione. Dopo aver girato tre diversi ospedali, che si ostinarono a confermare la stessa cosa, morì per emorragia cerebrale la sera del 18 luglio 1989 all’età di cinquantuno anni.
Cremata, le sue ceneri riposano nel cimitero berlinese di Grunewald-Forst, meta di pellegrinaggio che e di omaggi floreali e di qualche banana. Lo stesso posto dove giaceva già sua madre per la quale una volta scrisse la canzone Mütterleib, triste presagio dell’eterno ricongiungimento, di cui riportiamo i primi versi:
“Cara piccola mamma
Ora posso finalmente stare con te
Il desiderio e la solitudine
Riscattati nella beatitudine”
Nico è stata una figura magnetica, influente, unica, in un periodo storico colmo di dive e celebrità.
A lei bastava la presenza gelida, la frangetta ardente, e gli zigomi alti per porla al di sopra delle altre.
Mai schiava però della bellezza, ha sempre evitato di usarla come naturale raccomandazione.
È stata la sua voce, quella sì, dolce e tenebrosa, a elevarla a musa ispiratrice.
Una ninfa tanto malinconica quanto umana che ha fatto ritorno ai boschi della beatitudine.